lunedì 30 aprile 2012

Auto inutili?


Con la crisi economica si diffonde l'idea che si possa vivere benissimo senza automobile, e ad essa vengono preferiti altri mezzi come la bicicletta e l'autobus.
Fin qui nulla di male. L'aspetto curioso è però l'idea che l'auto non serva a niente, che sia un'inutile mucchio di ferro e latta, la cui tecnologia è rimasta sostanzialmente la stessa da cento anni a questa parte (come se la tecnologia di base della bicicletta fosse cambiata...), e che sia un bisogno indotto, suggerito dalla pubblicità.
Questo modo di ragionare mi sembra scorretto, se non altro finché non si definiscono i bisogni inutili e indotti, e non li si distingue dai bisogni che si potrebbero definire "veri", "genuini" o magari "naturali".
Chi crede che sia facile stabilire quali siano i bisogni "giusti", magari affidandosi alla natura, potrebbe riflettere sulla figura di Diogene di Sinope, il filosofo greco fondatore della scuola dei Cinici, il quale si privava di tutto ciò che non considerava indispensabile, tanto che viveva in una botte e per bere non usava neanche una ciotola ma le nude mani; in questo modo arrivò a vedere nel cane l'esempio di come si dovrebbe vivere.
Purtroppo i critici dell'automobile non sono rigorosi e coerenti come Diogene, per cui considerano "naturale" ciò che piace a loro, e non rinuncerebbero certo alle comodità che per Diogene erano solo frutto di ipocrisia e corruzione morale. Ad esempio sarei curioso di sapere quanti tra i sostenitori dei bisogni "naturali", rinuncerebbero all'acqua corrente in casa, all'elettricità o al riscaldamento, che ancora Pasolini negli anni '70 considerava come bisogni indotti.
L'abbandono dell'automobile è una scelta personale; qualora divenisse una moda e si diffondesse presso la maggioranza della popolazione, sarebbe semplicemente il sintomo di un cambiamento del paradigma, della visione del mondo, dei valori fondamentali da parte dei membri di una società. Evidentemente, si passerebbe dai valori della velocità, dell'efficienza, della libertà e dell'indipendenza, ad altri valori quali il contatto con la natura, la socialità, il benessere psico-fisico. Per carità, nulla di male, ma la natura non c'entra niente.
Non esistono bisogni naturali e bisogni indotti, l'uomo è un essere culturale, la sua natura non è definita una volta per tutte, ma è l'animale non è ancora stabilizzato (Nietzsche). Personalmente invidio coloro (come i sostenitori della "decrescita felice") i quali sanno già cosa è l'uomo, cosa deve e non deve fare. Ma mi pare che la storia, che mostra come l'uomo cambi continuamente valori e stili di vita, stia lì a dimostrare il contrario.

martedì 17 aprile 2012

La solitudine degli imprenditori suicidi


L'impennata dei suicidi negli ultimi mesi a causa della crisi ha messo in evidenza la fragilità in cui si trovano molti imprenditori, artigiani, partite Iva ecc., di fronte alla crisi economica.
Una delle lamentele ricorrenti da parte degli imprenditori in difficoltà è la loro solitudine, il fatto che nessuno si cura dei loro problemi. Questo può essere vero, ma io non posso fare a meno di notare la contraddizione con i valori del mercato che vengono sbandierati quando le cose vanno bene: in quei momenti la solitudine dei singoli in lotta per l'affermazione sociale è considerata un principio fondamentale dell'economia di mercato.
Quindi la mia osservazione è molto semplice: perché si invoca la comunità quando le cose vanno male, mentre si esalta la legge della giungla quando l'economia tira?
E poi, il rischio non faceva parte del mestiere dell'imprenditore, e non era una delle ragioni addotte per giustificare i suoi superiori guadagni?
So che questa mia posizione potrebbe sembrare un po' provocatoria, ma mi pare che la richiesta di aiuto nei momenti di crisi non sia altro che un ulteriore capitolo della storia della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti.
Se vogliamo ripensare l'economia in senso più comunitario va bene, ma allora non voglio più sentire, al prossimo boom economico (sempre che ci sia) l'esaltazione degli "spiriti animali" e di quelli che "si sono fatti da sé" andando avanti a spallate. L'economia di mercato presuppone che qualcuno vinca e qualcun altro perda, e chi perde anziché suicidarsi si dovrebbe ricollocare in settori dell'economia in quel momento più fiorenti, oppure dovrebbe cambiare mestiere. Almeno così ci avevano insegnato.
Se invece vogliamo capire che l'economia ha un ruolo sociale, e che gli imprenditori e i lavoratori sono alla fine sulla stessa barca, allora dovremmo modificare il nostro approccio nei confronti dell'economia stessa. Non possiamo dire che l'imprenditore fa ciò che vuole, che il suo mestiere è fare profitti, che non è un filantropo o un benefattore, che ha il diritto di licenziare e delocalizzare ecc., e poi piangere quando fallisce. L'importante, come sempre, è essere coerenti.

sabato 14 aprile 2012

La scienza cambia continuamente idea


"La scienza cambia continuamente idea". E' la soprendente frase che ho sentito pronunciare da una persona che conosco e che si interessa di benessere e di alimentazione. La sua conclusione era che tanto valeva basarsi su una propria filosofia, e scegliere in base ad essa lo stile di vita da seguire, visto che la scienza è inaffidabile.
Purtroppo temo che questa idea sia condivisa da molte persone, a causa della difficoltà con cui la scienza riesce a comunicare con il grande pubblico. Vale forse la pena dunque considerare alcuni aspetti.
Non solo non è vero che la scienza cambia continuamente idea, ma è vero esattamente il contrario. La scienza è scettica, e finché qualcosa non viene provato, rimane imperturbabile di fronte ad eventuali scoperte o studi non confermati.

E' il caso ad esempio dei neutrini, che secondo un clamoroso esperimento del Cern di Ginevra di qualche mese fa, avrebbero superato la velocità della luce, mettendo in crisi la relatività di Einstein (per la quale la velocità della luce è un limite teorico) e con essa la fisica moderna. Eppure, dopo la pubblicazione del risultato, non abbiamo visto gli scienziati cambiare idea, non abbiamo visto Margherita Hack stracciarsi le vesti e dire "scusate, non avevo capito niente", per dire. Semplicemente, si sono attese conferme sullo studio in questione, salvo scoprire dopo qualche tempo che c'era un errore nel calcolo, e dunque i neutrini non superano la velocità della luce.
Va infatti notato che uno studio è ricerca, non è ancora scienza, e dunque un singolo studio non è sufficiente per provare alcunché.
Infatti, su molti argomenti si trovano studi che provano una cosa e il suo contrario. Una ipotesi viene confermata solo quando viene provata oltre ogni ragionevole dubbio da studi indipendenti. Per questo è ridicolo l'uso che giornali e riviste fanno di singoli studi per dimostrare la validità di questa o quella dieta, di questa o quella sostanza, naturale o meno, per curare certe malattie, per prevenire l'invecchiamento ecc.
Molte scoperte "sensazionali" del passato non sono mai state accettate dalla scienza, che per questo non ha avuto bisogno di cambiare idea per respingerle. E' stato il caso ad esempio del metodo Di Bella di cui si parlava negli anni '90 per la cura del cancro, o della dieta a zona, della paleodieta o le tante diete sfornate negli ultimi anni. La scienza non le ha mai fatte proprie, perché non sono mai state dimostrate valide, tutto qui.
Questo naturalmente non vuol dire che la scienza non possa sbagliare, ma se c'è una cosa che non fa, è cambiare continuamente idea. La scienza si muove con i piedi di piombo, e prima di far propria una certa teoria, ha bisogno di prove inconfutabili. Ovviamente, errare è umano, ma la forza della scienza sta nel suo metodo, che alla lunga si rivela valido, e infatti è in grado di emendare gli errori del passato e di progredire.
E' chiaro che se uno si limita a leggere quello che scrivono le riviste femminili o maschili, o anche (purtroppo) i quotidiani, si può avere l'impressione che sia la scienza a cambiare ogni volta idea, quando questo non è vero.
L'uso di singoli studi per dimostrare qualcosa, in buona o in malafede, è una delle cause della disinformazione e della confusione che i mass-media producono sulle questioni scientifiche.
In primo luogo va detto che uno studio è un affare di scienziati, che può essere compreso solo da chi conosce già la materia. Se un giornalista o un lettore qualunque, non esperto, legge uno studio, non è detto che lo sappia capire, e soprattutto che ne sappia capire le implicazioni. Ma purtroppo spesso i giornalisti non leggono neanche gli studi per intero, ma si limitano a leggere l'abstract e a trarne le proprie deduzioni, magari stiracchiandole per confezionare lo scoop.
Quindi, per prima cosa uno studio va letto per intero, poi si deve saperlo discutere, e questo si può fare solo se si conoscono le basi dell'argomento, e se si conoscono altri studi pubblicati nel settore. In genere gli studi sono molto specifici, per cui le conclusioni generali sono una mera deduzione del giornalista o di chi li ha letti (si spera per intero).

Ad esempio, se uno studio riporta i migliori risultati in diversi parametri come colesterolo e glicemia in un gruppo di quindicenni che pratica tre volte a settimana scatti di velocità intervallati per venti minuti, rispetto ad un altro gruppo di quindicenni che pratica la corsa lenta sempre per venti minuti, non si può dedurre automaticamente che la corsa veloce sia preferibile alla corsa lenta, anche ammesso che lo studio sia corretto (cioè che non vi siano errori nei risultati). Infatti, cambiando i parametri potrebbero cambiare i risultati: tra i quarantenni (che presentano un quadro ormonale diverso) il risultato potrebbe essere diverso, e comunque molti adulti potrebbero non essere in grado di sopportare un allenamento molto intenso come gli scatti di velocità, senza infortunarsi. Oppure, prolungando l'allenamento e portandolo ad esempio ad un'ora anziché a venti minuti (cosa facile nel caso della corsa lenta, difficile nel caso della corsa veloce, che potrebbe diventare troppo pesante per chi non è un atleta professionista), i risultati potrebbero essere ancora diversi. Quindi la conclusione dello studio potrebbe essere: "se si hanno solo venti minuti di tempo, si ottengono risultati migliori con un allenamento intenso", anziché "meglio la corsa veloce della corsa lenta", come invece hanno scritto alcuni giornali, estendendo impropriamente a tutti i risultati specifici di uno studio specifico.

Quindi, la prossima volta che leggete un articolo che segue il seguente schema: "uno studio ha dimostrato questo e quello, pertanto voi fate questo e quest'altro", se volete avere un atteggiamento scientifico, rimanete scettici e imperturbabili e dite: "Uno studio non prova niente. Finché queste cose non le leggerò nei manuali universitari, o quantomeno in quelli di liceo, non ci crederò. Ma sarò sempre pronto a crederci qualora venisse confermato".

martedì 3 aprile 2012

Bersani e l'articolo 18


La posizione rigida assunta da Bersani sull'articolo 18 è stata causata probabilmente dalla necessità di tenere unito il partito di cui è segretario, il Pd, ma in questo modo ha probabilmente stabilito un precedente pericoloso per il governo. Se i partiti che lo sostengono possono impuntarsi su singole questioni, questo potrebbe accadere in futuro anche per altre materie come la Rai o la giustizia, dove il Pdl potrebbe far valere i propri interessi particolari.
In ogni caso, credo che la difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori come se fosse un fortino inespugnabile sia sintomo di una posizione ideologica. Si tratta indubbiamente di un argomento complesso, ma si possono fare alcune considerazioni.
Uno degli argomenti più curiosi che sono stati portati per difendere l'articolo 18 è che "non è importante". "Se non è importante, perché lo volete cambiare?", hanno chiesto ad esponenti del governo giornalisti come Fabio Fazio. A questa domanda si poteva rispondere: "se non è importante, perché non si potrebbe cambiare? Visto che i mercati e gli investitori esteri si sono convinti che lo sia". In realtà, chi pensa che l'articolo 18 sia intoccabile, dovrebbe sostenere che è importante, non certo che non lo è.
A me pare evidente che la libertà di licenziamento in un'epoca di crisi può incentivare i licenziamenti, mentre in un'epoca di crescita economica, incentiva le assunzioni. Poiché nel lungo periodo sono statisticamente più gli anni di crescita degli anni di crisi, è lecito pensare che la libertà di licenziamento abbia un effetto tutto sommato positivo, e non negativo, sull'occupazione. Come del resto è dimostrato da Paesi quali gli Stati Uniti, in cui la disoccupazione è normalmente più bassa che in Italia.
Da questo non si deve dedurre che sia giusto introdurre una assoluta libertà di licenziamento, perché questo potrebbe portare ad abusi e discriminazioni (nei confronti delle donne, dei lavoratori iscritti al sindacato, dei gay ecc.).
Ma quello che non trovo corretto è l'argomento secondo cui l'abolizione o la revisione dell'articolo 18 (che comunque non comporta l'assoluta libertà di licenziamento) provocherebbe sicuramente un aumento dei licenziamenti. Si dà per scontato che gli imprenditori muoiano dalla voglia di licenziare, che il loro obiettivo non sia altro che quello. In realtà, se ai datori di lavoro non interessasse altro che licenziare, non si capirebbe come mai i lavoratori li hanno assunti.
Un'altra questione delicata riguarda l'alternativa tra indennizzo (proposto dal governo) e reintegro (proposo da Cgil e Pd) nel caso di licenziamento per motivi economici. Personalmente, se sapessi di non stare simpatico al mio datore di lavoro, sarei io il primo a volersene andare, tanto più se avessi a disposizione un indennizzo corrispondente a 1-2 anni lavorativi che mi consentirebbe di cercare un altro lavoro durante questo periodo.
In ogni caso, un errore che si commette in questi casi è quello di fare come se al mondo non vi fosse niente oltre l'Italia. Che ci piaccia o no, viviamo in un mondo globalizzato e fortemente competitivo, per cui quello che pensano gli investitori degli altri Paesi non può non avere un peso sulle decisioni da prendere a casa nostra. E' un fatto che l'Italia non attira gli investimenti stranieri (che possono portare più occupazione). Non sarà solo per l'articolo 18, ma qualche peso lo deve avere, se anche nella lettera del Bce inviata l'anno scorso al governo, si chiedeva di riformare il mercato del lavoro.
Se Bersani e la Camusso pensano che l'articolo 18 sia un baluardo intoccabile per la difesa dei diritti dei lavoratori, dovrebbero fare questa battaglia in sede internazionale, quantomeno in sede europea. Inoltre dovrebbero coerentemente premere per la sua estensione a tutti i lavoratori, altrimenti è curioso che si difenda come un diritto fondamentale un articolo che protegge solo alcuni lavoratori, e non tutti.
A mio avviso, nel mondo moderno, dove la flessibilità delle aziende è diventata fondamentale, bisognerebbe andare verso il modello scandinavo della flexicurity, dove ad essere protetti sono i lavoratori, e non i singoli posti di lavoro. In ogni caso, chi non è d'accordo dovrebbe proporre dei cambiamenti quantomeno a livello europeo, non certo limitarsi all'Italia senza interessarsi di quello che accade fuori.