lunedì 27 maggio 2013

Il Pd, partito di centro

Le ultime vicende politiche, tra cui l'appoggio al finanziamento delle scuole private in occasione del Referendum a Bologna, hanno mostrato come il Pd sia ormai (o forse lo è da tempo) un partito di centro. Da questo punto di vista non stupisce l'alleanza con Berlusconi e il Pdl per dar vita al governo Letta. Se in precedenza, nel pieno della tempesta finanziaria del 2011, poteva avere un senso appoggiare la nascita del governo Monti, il fatto che poi il Pd abbia mantenuto questa posizione (e abbia accettato che Monti facesse pagare la crisi soprattutto ai pensionati senza contrastare i privilegi) la dice lunga sulla sua natura.
E' vero che dopo le elezioni Bersani aveva proposto un'alleanza con il Movimento 5 Stelle, ed è stato sicuramente un errore politico il rifiuto da parte dei grillini di sostenere un governo per il cambiamento. Gli argomenti portati dai grillini (Bersani non faceva sul serio, in realtà non voleva, era una trappola ecc.) sono ridicoli: nessuno impediva ai grillini di accettare e rilanciare, di porre le proprie condizioni, anche perché, come disse lo stesso Bersani, le fiducie si danno e si tolgono. Ma il Movimento 5 Stelle, forse anche conscio della propria impreparazione, ha preferito dire di no, salvo poi lanciare una patata bollente al Pd in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica, quando senza dialogare con nessuno Grillo ha annunciato che avrebbe votato per Rodotà, aggiungendo che però sperava che anche il Pd avrebbe fatto lo stesso. Il risultato è stato il ritorno sulla scena di Berlusconi e la spaccatura nel Pd, ottimo risultato politico per Grillo, meno per l'Italia.
In ogni caso, il punto è che il Pd ha poi accettato l'alleanza con il Pdl, il che è comprensibile se si pensa che alle elezioni non aveva vinto nessuno, per cui, tramontata l'alleanza con i grillini, non restava che un'alleanza con il Pdl oppure un ritorno alle elezioni, che avrebbero potuto portare ad un nuovo stallo. Ma quello che manca al Pd è una prospettiva, una visione della società, un progetto a lungo termine. E soprattutto, un progetto a lungo termine che sia di sinistra. Rispetto al passato, quando la sinistra italiana era prigioniera di un'ideologia rivoluzionaria, il Pd ha compiuto un passo in avanti in termini di buon senso e capacità di analizzare la realtà: il Pd sa che siamo nell'Occidente, che siamo nella Nato, che siamo in un sistema di libero mercato, che siamo nell'UE ecc. Benissimo. Ma dopo aver riconosciuto lo stato attuale delle cose, ci vorrebbe una visione, un'idea di quali sono i problemi e di come superarli. Eppure le ideologie non rivoluzionarie ma pur sempre di sinistra ci sarebbero. Ad esempio la socialdemocrazia. Certo, la socialdemocrazia non può essere più applicata secondo le ricette del '900, quando il grosso dei lavoratori era impiegato nelle grandi imprese metalmeccaniche, ma gli scopi di base, sia pur aggiornati, rimangono: i diritti dei cittadini, lo stato sociale a protezione delle fasce più deboli, condizioni di lavoro dignitose ecc. Ad esempio in Francia il presidente Hollande ha posto dei temi come l'aumento delle tasse per i ricchi e i diritti degli omosessuali, che chiaramente ne fanno un presidente di sinistra.
Dunque in Italia non c'è più una sinistra, ma soltanto un centro. E questo non è avvenuto in seguito ad una campagna per le primarie, ad un confronto tra le idee e alla vittoria di un candidato con un programma di centro: in un partito come il Pd, che si definisce democratico, questo sarebbe stato accettabile: se la sua base esprime posizioni di centro, ben vengano. Invece questo è avvenuto con una segreteria, quella di Bersani, che si definiva di sinistra.
Ma a ben vedere vi è un'anomalia anche dall'altra parte: come il Pd non è di sinistra, così il Pdl non è di destra, dal momento che in dieci anni di governo non ha ridotto la spesa pubblica, non ha combattuto la corruzione e la criminalità, non ha ridotto il peso dello stato, non ha attuato liberalizzazioni, non ha reso più meritocratica la società. D'altro canto, se il Pd è composto di ex comunisti ed ex democristiani, il Pdl è composto di ex socialisti ed ex democristiani, più una pattuglia di ex fascisti che si è prontamente democristianizzata.
Dunque il Pd e il Pdl nella sostanza sono uguali nel senso che sono entrambi partiti di centro. Vi è un unico sistema che mette insieme politica, grandi imprese (le poche rimaste, spesso di stato) e banche. L'Italia è sempre stata così, un Paese che tende a conservare l'esistente, in cui maggioranza e opposizione preferiscono accordarsi piuttosto che essere davvero diversi, antagonisti. L'unica differenza rispetto agli anni '80 è che con i vincoli europei oggi non si può drogare l'economia con la spesa pubblica improduttiva. Ma per quello che possono, entrambi i partiti principali cercano di spendere il più possibile. Il governo Letta ha già fatto capire che la chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo sarà sfruttata per aumentare la spesa. Inoltre Letta è volato in Europa per chiedere che si parli di lavoro a livello europeo. Ottimo proposito, ma questo sottintende che il governo italiano non ha intenzione di ridurre gli sprechi, di fare una vera spending review, di combattere la corruzione, di ridurre i tempi della giustizia civile, di ridurre in maniera significativa i costi della politica, insomma di rendere il Paese più competitivo, unica strada per evitare il declino. Il presidente della Provincia di Bolzano continua ad essere il politico di lingua tedesca meglio pagato d'Europa, e i parlamentari italiani continuano ed essere i meglio pagati d'Europa, al sud una siringa continua a costare il doppio che al nord, e le province sono ancora tutte lì. Le tasse per le imprese continuano ad essere insostenibili. D'altro canto il Pdl non è interessato a ridurre le imposte per le imprese, perché deve mantenere la promessa elettorale di togliere l'Imu, quindi di premiare i percettori di rendita rispetto a chi produce reddito. Insomma, noi non cercheremo di essere più efficienti, però chiederemo più risorse all'Europa. Parliamo tanto di lavoro e di crisi ma non abbiamo intenzione di fare vere riforme. Cerchiamo semplicemente di tenere a galla la barca, almeno per quanto si può, tappando qualche falla, e lasciando che il Paese continui nel suo lento e inesorabile declino.

venerdì 3 maggio 2013

La fine del PD

Le divisioni nel Partito Democratico emerse durante le votazioni per il Presidente della Repubblica, hanno messo in mostra la sostanziale incapacità da parte del partito di seguire un'unica linea politica. Negli ultimi mesi del 2012, la candidatura di Matteo Renzi alle primarie e il suo porre l'accento sulla questione anagrafica (il giovane rottamatore che vuole mandare a casa i vecchi), ha nascosto la vera questione, che è una questione politica: il Pd è diviso tra correnti fortemente ideologizzate, che non accetterebbero mai che il partito finisse nelle mani delle correnti che considerano troppo lontane. Lo ammise Massimo D'Alema quando disse che, qualora Renzi avesse vinto le primarie, avrebbe fatto una "battaglia" all'interno del partito. Sarebbe come se Hillary Clinton avesse dato battaglia contro Obama dopo aver perso le primarie. Interessante poi la scelta, da parte di D'Alema ma anche di Veltroni, di non candidarsi alle elezioni, senza però ritirarsi dalla politica, anzi, per poter agire con più libertà all'interno del partito. D'altro canto all'interno del Pd, sia nella classe dirigente che tra i simpatizzanti, c'è chi pensa che Renzi sia un "infiltrato di destra". Che ci possano essere posizioni diverse all'interno di un partito ci può stare, ma questo linguaggio mostra come il PD non si possa considerare un partito democratico come quello americano, un partito "liquido", cioè un partito poco ideologizzato la cui linea viene decisa da chi vince le primarie, senza veti e guerre interne.
Il PD appare dunque un partito novecentesco, ancora legato alle ideologie del passato, ma che non ha il coraggio di ammetterlo, forse perché nessuna di queste ideologie sarebbe in grado di ottenere il consenso necessario per vincere le elezioni. Sarebbe bello attribuire le colpe degli errori del PD alla sua classe dirigente, ma ho paura che essi siano soltanto lo specchio dell'arretratezza culturale del nostro Paese. Infatti in Italia non si guarda al mondo, non ci si chiede come fanno la Germania o la Corea del Sud, non ci si chiede come creare ricchezza, ma ci si barrica dietro questioni che solo da noi sono considerate come fondamentali, come l'articolo 18 o la Tav, l'acqua pubblica o l'Imu. Questioni irrilevanti rispetto alla vera questione di questi anni: come evitare il declino, come non perdere il treno della modernità, come evitare di diventare un Paese povero. E di questo non si occupa nessuno.