lunedì 9 giugno 2014

Renzi è di destra?


La rapida ascesa di Matteo Renzi ha provocato non pochi mal di pancia tra gli elettori tradizionali di sinistra, anche se la sua netta vittoria alle primarie di fine 2013, sia tra i delegati che tra gli elettori, ha certificato un cambiamento di opinione della maggioranza di essi, che l'anno prima gli aveva preferito Bersani. Tuttavia, molti, in quella che ora è diventata la minoranza Pd, ma anche tra gli elettori della sinistra radicale, continuano a pensare che Renzi sia di destra, una sorta di Berlusconi infiltrato nel Pd.
Ma quanto c'è di vero in questo?
Ovviamente, per rispondere a questa domanda dobbiamo prima chiederci se la distinzione destra/sinistra sia ancora valida, e in ogni caso, cosa significhi essere di sinistra.
I motivi per cui Renzi non viene considerato di sinistra, al di là del suo abile uso del mezzo televisivo per comunicare e del suo uso di un linguaggio più semplice e incisivo e del suo modo di fare meno paludato rispetto ai politici tradizionali, si trova nel suo richiamo a concetti quali la crescita dell'economia e il riconoscimento del merito, oltre alla sua provenienza dal partito popolare, dunque alla sua storia di centro. Scartiamo subito quest'ultimo aspetto: se provenire dal centro è sufficiente per scomunicare qualcuno, allora il Partito Democratico non si doveva fare, e il partito del filone Pci-Pds-Ds doveva continuare ad avere come discriminante quella di avere un puro pedigree di sinistra. In questo modo non si sarebbero mai vinte le elezioni, ma ci si sarebbe potuti guardare allo specchio e sentirsi superiori, senza la responsabilità di dover governare, un po' come fanno i grillini oggi. Oppure si poteva andare avanti con l'opzione D'Alema-Bersani: si rimane nel fortino in cui ci si sente superiori, però dopo aver constatato che da soli non si vincono le elezioni, si accetta di allearsi con forze di centro, e persino di centro-destra, pur di governare. In questo modo, però, come si è visto, si perdono consensi e comunque si scontenta il proprio elettorato.

Ma torniamo a Renzi. In primo luogo va detto che la politica non è una scienza esatta, ma consiste nel cercare di portare avanti i propri principi, adattandoli alla realtà della propria epoca. E quando la realtà cambia, bisogna avere l'intelligenza e la flessibilità sufficienti per cambiare. Pensare di poter applicare oggi le ricette di cinquant'anni fa è semplicemente illusorio. Ora, negli ultimi decenni la sinistra aveva ignorato il tema della crescita, ma questo è per forza un carattere distintivo della sinistra? A ben guardare no: quando l'Italia era ancora un Paese non sviluppato, i dirigenti di sinistra, comunisti e socialisti, o almeno i più consapevoli di essi, promuovevano delle politiche di sviluppo volte a far uscire dallo stato di povertà endemica le cosiddette masse popolari. Del resto, nell'ideologia marxista-leninista, lo sviluppo dell'industria pesante è una condizione necessaria per industrializzare la società e creare le basi per il progresso sociale (il motto di Lenin era: elettrificazione più soviet). Dunque, non è vero che la crescita sia un tema estraneo alla sinistra. Viceversa, all'inizio del dopoguerra, in Italia la Confindustria pensava che il Paese sarebbe rimasto per gran parte agricolo, e non immaginava che potesse diventare un Paese industrializzato e dal benessere diffuso. E il ventennio berlusconiano ci ha mostrato una destra occupata soltanto a difendere le proprie posizioni di rendita e privilegio, mantenendo il Paese bloccato e senza crescita. Dunque, non è vero neanche che la destra sia interessata sempre e comunque alla crescita. Spesso la destra è un ostacolo alla crescita, nella misura in cui difende i gruppi sociali che già ce l'hanno fatta e si sono ricavati un posto al sole. E questo è tanto più vero in un Paese corporativo come l'Italia.

Ma allora perché in Italia si fa fatica a pensare che la crescita sia un tema di sinistra? A mio avviso, la ragione si trova nella storia degli ultimi decenni. Con il boom economico, l'Italia si ritrovò ad essere un Paese che correva verso il benessere, e nello stesso tempo si imborghesiva, così che i valori del consumismo e dell'edonismo diventavano predominanti. La reazione della sinistra, basi vedere le analisi che faceva Pasolini, furono principalmente le seguenti: dare per scontato che la crescita ormai c'era e sarebbe durata, non vederla di buon occhio nella misura in cui imborghesiva la società, e però cercare di sfruttarla per redistribuire il reddito e fare riforme che consentissero un progresso civile. E così dopo il 1963, arrivarono le pensioni sociali e il diritto di famiglia, l'aborto e il divorzio, lo statuto dei lavoratori e la scala mobile. La ricchezza già c'era, e la sinistra pensava solo a sfruttarla per migliorare le condizioni delle masse.


Ma con la crisi degli anni '70, la destra liberale diede vita ad una controffensiva, con Reagan in America e la Thatcher in Europa, per aumentare di nuovo i profitti che si stavano erodendo. E così la sinistra si mise a "resistere", cercando di salvare quanto aveva conquistato nei decenni precedenti. Ma è solo in Italia che la sinistra costruì una mitologia basata sul conflitto come mezzo necessario per ottenere risultati, e questo perché in Italia la stagione del conflitto coincise con la stagione del progresso (anni '60/'70). E così ancora oggi, molti elettori di sinistra pensano che essere di sinistra significhi combattere contro i "padroni", scioperare, dire di no, essere contro, essere all'opposizione ecc. Invece in altri Paesi lo stato sociale è stato introdotto senza i conflitti che ci furono da noi, basti pensare che in Gran Bretagna lo stato sociale fu introdotto dal primo governo dopo la guerra, quello di Clement Attlee insediatosi nel 1945.

In ogni caso, oggi la situazione è cambiata: in Italia l'economia non cresce da vent'anni, e dopo la crisi, il Pil è sceso del 10%. In queste condizioni, ignorare il tema della crescita e pensare soltanto a redistribuire la torta, quando la torta diventa sempre più piccola e l'Italia rischia di diventare un Paese povero, è semplicemente assurdo.
Ecco perché la sinistra radicale, quella guidata dai vari Bertinotti e Diliberto, che voleva solo combattere, resistere e redistribuire, è praticamente scomparsa. E così rischiava di scomparire anche quella più moderata dei vari D'Alema, Bersani, Fassina e Cuperlo, che è rimasta per anni in una condizione di ambiguità, che però prima o poi doveva essere sciolta.
E così una parte dei voti della sinistra radicale, quelli che sono sempre contro a prescindere, è confluita nel Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, trovando in lui una base per sognare un mondo totalmente diverso, senza sapere bene come dovrebbe essere fatto.
E d'altro canto la crisi ha anche scardinato la destra, dato che le imprese che si confrontano nel mercato e non hanno santi in paradiso, hanno per forza di cose abbandonato Berlusconi e la Lega, che nei lunghi anni di governo si erano limitati a difendere l'esistente, senza ridurre la burocrazia, e senza rendere più efficiente il sistema, dato che il loro elettorato era tutto sommato benestante e non chiedeva riforme particolari, se non un po' di tasse in meno, ma senza soffrire particolarmente se queste non scendevano. Ora che la stessa base industriale italiana rischia di scomparire, l'alleanza tra le piccole e medie imprese e le categorie protette che sono rimaste con la destra (avvocati, notai, imprese che lavorano per lo Stato ecc.), è venuta meno.



Ecco spiegato il fenomeno Renzi: l'Italia è in declino, e le categorie privilegiate, sia quelle tradizionalmente di sinistra (pensionati, operai delle grandi imprese, dipendenti pubblici intoccabili), sia quelle tradizionalmente di destra (professionisti, pensionati e dirigenti pubblici benestanti o ricchi, aziende protette e fuori dal mercato) sono sempre meno numerose. Se la nave rischia di affondare, bisogna fare qualcosa, non si può rimanere chiusi dentro, a "resistere" (sinistra radicale) o a festeggiare (destra berlusconiana), e naturalmente neanche a gridare (grillini).

Dunque Renzi è di sinistra perché non vuole distruggere ma salvare lo stato sociale, facendo crescere l'economia e riducendo un po' di privilegi, un po' come fecero Blair in Gran Bretagna e Schroeder in Germania. Poi è chiaro che se c'è la crescita, in un'economia di mercato ci sarà anche qualche imprenditore che si arricchisce, ma se preferiamo diventare tutti più poveri pur di non darla vinta ai "capitalisti", basta dirlo. Io non sono d'accordo, ma rispetto questo punto di vista.

C'è anche chi teme che introducendo un po' di meritocrazia, l'Italia diventi una giungla come gli Stati Uniti, dove chi rimane indietro finisce per strada. Non scherziamo. Intanto in Europa c'è una cultura diversa, meno individualismo e più società. E poi, in America c'è un'enorme concentrazione di capitali, ed i mezzi di informazione sono in mano alle corporation. In Italia le grandi aziende sono pochissime, e quelle che ci sono fuggono (vedi la Fiat). Rifiutare di introdurre un po' di concorrenza in Italia per paura di diventare come gli Stati Uniti, sarebbe come se un obeso rifiutasse di sottoporsi ad una dieta dimagrante per paura di diventare anoressico. La politica, se è intelligente, cerca di affrontare i problemi che si pongono al momento. Per ora il problema dell'Italia è evitare il declino, quindi noi dobbiamo affrontare questa malattia e non un'altra.

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