lunedì 5 settembre 2011

Decrescita (in)felice?


In quest'epoca di crisi gli economisti, gli industriali, i sindacalisti e anche i politici (di opposizione) chiedono a gran voce misure per la "crescita". La crescita, si argomenta, è necessaria per assorbire la disoccupazione e il debito pubblico, per mantenere in vita lo stato sociale in un'epoca in cui la popolazione invecchia e quindi aumentano le spese per sanità e pensioni ecc.

A queste voci però si contrappone quella del movimento della cosiddetta "decrescita felice", che addirittura propone di andare nella direzione opposta: decrescita anziché crescita, contrazione del commercio internazionale e degli spazi dominati dal mercato.

Chi ha ragione?

I sostenitori della "decrescita felice" hanno dalla loro parte molti argomenti corretti.
Essi fanno notare come nel conteggio del PIL (il Prodotto Interno Lordo) vengano inserite le merci e non i beni, per cui i beni utilizzati che non sono immessi nel mercato non vengono conteggiati. Ad esempio i milioni di contadini cinesi che emigrano nelle campagne e iniziano ad acquistare il cibo di cui si nutrivano quando vivevano nei campi che coltivavano in proprio o nelle fattorie collettive, ora "mangiano ufficialmente" mentre prima ai fini del calcolo del PIL era come se non mangiassero. E' anche per questo che in molti Paesi africani si dice che ci siano persone che vivono "con meno di un dollaro al giorno": questo non significa che esse devono sostentarsi con meno di un dollaro al giorno, ma che gran parte delle risorse che utilizzano per vivere, le prendono al di fuori del mercato.
Allo stesso modo, nei Paesi industrializzati è possibile togliere una parte delle attività umane dal mercato, ad esempio spostandosi a piedi anziché con l'automobile, producendo in proprio il cibo attraverso la coltivazione dell'orto ecc. Come esempio si ricorda l'ormai famoso yogurt fatto in casa come alternativa all'acquisto dello yogurt industriale.
L'idea non è solo quella di ridurre le spese per avere la possibilità di lavorare di meno e quindi di migliorare il proprio stile di vita (da ciò l'aggettivo "felice" legato al termine "crescita"), ma anche di ridurre l'impatto ambientale delle attività economiche legate al mercato, dall'uso delle materie prime all'inquinamento prodotto dal trasporto delle merci, all'adulterazione dei cibi.
I sostenitori della decrescita felice esprimono da un lato una preoccupazione per la sostenibilità ambientale del modello di sviluppo basato sul consumismo, dall'altro lato però vogliono offrire una visione diversa della società, che non solo riduca lo spostamento delle persone e delle merci, ma che sottragga anche una quota maggiore delle attività umane al mercato.
In altre parole, la decrescita felice non nasce come risposta all'attuale crisi economica, ma nasce semmai come risposta al culto del mercato e del Prodotto Interno Lordo come suo indicatore.

Detto ciò, la teoria della decrescita felice mi lascia molte perplessità.

La produzione di beni e servizi è stata ed è una buona indicazione del livello di sviluppo raggiunto da un Paese, e il mercato è stato il sistema in cui si è verificato tale sviluppo. Banalmente, il mercato consente di produrre ciò di cui c'è bisogno: se io sono disposto a pagare per avere x, vuol dire che x per me ha un valore. Il mercato non sarà poi efficiente al 100%, ma questo non significa che vi siano altri sistemi più efficienti. In ogni caso, tra Paesi che hanno un PIL pro capite analogo, cioè in cui, nella produzione di beni e servizi secondo il classico indicatore economico, l'ordine di grandezza è simile, il livello di sviluppo sociale è più o meno lo stesso: attualmente non esistono Paesi che hanno un basso PIL e che però sono avanzati dal punto di vista culturale, tecnologico ecc. Certo, si può dire che ad esempio la Svezia è più sviluppata degli Stati Uniti, perché ha una speranza di vita più elevata o una mortalità infantile più bassa, ma la Svezia è pur sempre un Paese industrializzato, che ha fatto propria la logica del mercato, sia pure temperata dallo stato sociale. Solo i Paesi socialisti hanno più o meno raggiunto lo stesso tenore di vita di quelli occidentali senza avere un'economia di mercato, salvo crollare prima di averli raggiunti. E comunque anche i Paesi socialisti avevano basato la propria economia sullo sviluppo industriale (tra l'altro con un livello di inquinamento molto più elevato).
Allo stato attuale, dunque, la decrescita felice si configura più che altro come un'utopia, o magari come una indicazione che possono seguire i cittadini dei Paesi ricchi per ridurre in parte le loro spese ed ottimizzare le risorse. E' chiaro che per un singolo o una famiglia, può essere una mossa intelligente quella di cambiare stile di vita e di ridurre le spese, e magari di lavorare meno e avere più tempo libero, di spostarsi a piedi riducendo lo stress ecc.
Ma ho l'impressione che i sostenitori della decrescita felice vadano oltre e sognino una società senza mercato. Sembra che il loro ideale sia il Chiapas... Non stupisce dunque che in essi sia presente la classica critica nei confronti dei "bisogni indotti", e che usino toni paternalistici nei confronti dei popoli ancora non sviluppati. Se fenomeni come l'emigrazione di massa continuano a verificarsi, non sarà soltanto per la "deformazione mentale" di cui sarebbero vittima i contadini che evidentemente non si rendono conto di quanto sono felici nelle campagne. Come accadeva a coloro i quali emigravano dalle nostre campagne meridionali negli anni '50, che vivevano secondo gli standard della "decrescita felice" (autoproducevano la gran parte dei beni che utilizzavano) eppure stranamente sognavano una vita diversa... Pretendere che la gente faccia ciò che non vuole fare e non faccia ciò che vuole è un'indice di scarso senso liberale, di scarsa tolleranza.
Certamente è vero che "i soldi non sono tutto", ma questa è un'idea che è già diffusa anche nelle economie di mercato. Che l'uomo non si trasformi mai nell'homo oeconomicus, ormai lo hanno capito tutti, tranne i fondamentalisti del mercato che sostengono tesi assurde più che altro per interesse.
L'impressione è che i sostenitori della decrescita felice tendano a mitizzare lo stile di vita nelle società preindustriali, esaltando elementi come lo scambio, la condivisione, la socialità, il tempo ecc. Questi saranno anche aspetti interessanti da riscoprire (anche se personalmente, sarò un cittadino obnubilato e alienato, ma non vorrei tornare alla vita delle campagne di cento anni fa), ma un giudizio se vuole essere equilibrato deve tenere presenti anche gli elementi negativi. Ad esempio, senza il commercio internazionale si tornerebbe al rischio di carestie in seguito alle calamità naturali (siccità, alluvioni ecc.). In caso di una siccità o di una gelata devastante, sarebbe interessante vedere come si organizzerebbero gli orti a chilometro zero...

I sostenitori della "decrescita felice" sostengono che ci siano lavori più belli di altri, esaltando ad esempio l'agricoltura o il lavoro domestico, e considerando alcuni lavori come "inutili". Anche questo è a mio avviso un segno di atteggiamento intollerante. Anche l'idea che i Paesi africani non debbano uscire dall'economia di sussistenza e non debbano entrare nella logica dello sviluppo, mi pare poco sensata. E' facile, da parte di chi vive in una società sviluppata, con l'acqua corrente e l'elettricità in casa, dire "tu non ti devi sviluppare".
In realtà la tecnologia può offrire gli strumenti per evitare le ricadute negative dello sviluppo, senza costringerci a diventare tutti contadini per compiacere le visioni socio-economiche di qualche professore. Sarò arretrato, ma in attesa che mi si dimostri la fattibilità della decrescita (senza l'uso della forza, s'intende) io rimango ancorato allo "sviluppo sostenibile".

Link: La decrescita felice su Youtube (primo video di 9) spiegata da Maurizio Pallante.

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