mercoledì 28 settembre 2011

La forma è sostanza


Ora che Berlusconi è stato "scaricato" anche dalla Confindustria, e la scarsa credibilità del nostro governo ci costa miliardi di Euro sui mercati, è ormai evidente che l'Italia è ostaggio di Berlusconi e del suo bisogno di rimanere al potere per curare gli interessi personali. Ormai infatti non esistono quasi più forze sociali che sostengano ancora questo governo, tranne forse le categorie professionali, che ben conoscono la sua attitudine anti-mercatista e anti-liberale.
I pochi esponenti del Pdl dotati di un minimo di autonomia come Alemanno si sono accorti, dopo aver taciuto per anni, che i listini bloccati e i rappresentanti politici che vengono nominati dall'alto danneggiano gli stessi partiti.
Gli editorialisti del Corriere della Sera, dopo averci raccontato per anni che in Italia era presente uno scontro all'arma bianca tra due schieramenti che sostanzialmente erano equivalenti, dividendosi la stessa dose di pregi e difetti, ora si sono finalmente svegliati e si sono accorti che Berlusconi ha un conflitto di interessi enorme, e anche se il governo non è liberale e non è in grado di fare le riforme, non se ne va perché il suo leader non può permettersi di perdere il potere, dal momento che è coinvolto in mille processi e comunque preferisce gestire i suoi interessi economici personali stando al governo. Forse era meglio pensarci prima, e dire che un uomo politico non dovrebbe avere interessi privati, non dovrebbe avere pendenze giudiziarie e dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto in quanto a onestà. Era così difficile capirlo?
Gli elettori leghisti dal canto loro si sono accorti che Bossi dice sempre sì a Berlusconi e che la Lega al governo non ha mantenuto la promessa di snellire l'apparato dello Stato e di ridurre le imposte, ma siccome Bossi è il leader assoluto, nessuno può cambiare le cose, nonostante i malumori della base. Eppure per molti anni i leghisti ci avevano raccontato che la Lega era superiore ai partiti in quanto a differenza di questi era "compatta" dietro al proprio leader. Ora che questo leader è ridotto a mantenere la poltrona per sé e i suoi familiari e ad esprimersi a pernacchie e dito medio, i suoi sostenitori ne pagano le conseguenze.
Insomma, la storia ci sta dimostrando ancora una volta che la forma è sostanza, e che se in altri Paesi la politica ha delle regole che prevedono la democrazia interna ai partiti e vietano il conflitto di interessi, ci sono dei motivi ben precisi, e che considerare le regole come un optional, come si tende a fare in Italia, è una scelta che alla lunga si paga.
Già una volta l'establishment italiano decise di consegnare il potere ad un uomo solo, un uomo forte, che nelle intenzioni doveva assicurare la legge e l'ordine, e per il resto doveva essere piegato a miti consigli, mentre alla fine ci portò al distastro della guerra mondiale. L'uomo forte del momento sta invece accelerando il nostro declino, isolandoci dal resto del mondo che ride di noi e non ci considera affidabili come Paese, dal momento che siamo stati capaci di dare il potere ad un uomo che ormai fuori dai nostri confini è considerato un pagliaccio (v. ad esempio le parole dell'economista Roubini), e non siamo in grado di mandarlo a casa.
La speranza è l'ultima a morire, ma visto che in genere l'Italia non è in grado di imparare dai propri errori, temo che tra breve ci innamoreremo di un altro uomo forte, che ci prometterà di pensare a tutto lui, così potremo tornare ad occuparci dei nostri affari privati, liberandoci dal fastidio e dall'incombenza di interessarci dei problemi pubblici, cosa che ci infastidisce sempre parecchio.

mercoledì 21 settembre 2011

Terry De Nicolò e i valori della destra


Secondo gli ultimi sondaggi, il consenso nei confronti di Berlusconi è ormai al 25%, cioè un quarto degli italiani approva l'operato del nostro Presidente del Consiglio. Questo anche dopo che sono state pubblicate le intercettazioni in cui, tra le altre cose, diceva "faccio il premier a tempo perso", per dirne una. Il 25% può sembrare poco, ma è pur sempre un quarto degli italiani.
Se si votasse domani, pare che il Pdl sarebbe di poco il secondo partito, con circa il 26% dei voti. Evidentemente, una tale resistenza deve essere dovuta ad un fatto culturale, più che al semplice appoggio ad una persona. Evidentemente gli elettori condividono con Berlusconi una visione del mondo, dei valori ben radicati. E quali sono questi valori?

Ci può aiutare a capirlo l'intervista che Terry de Nicolò, una delle ragazze che frequenta(va)no le feste a Palazzo Grazioli, ha rilasciato per la trasmissione "L'ultima parola", intervista che rappresenta un perfetto compendio dei valori e delle idee della destra italiana all'epoca di Berlusconi. Tra vent'anni basterà da sola a spiegare questi anni di potere berlusconiano.

La cosa principale che emerge è che i soldi e il successo vengono prima di tutto, e per ottenerli non esistono regole. L'imprenditore Tarantini, condannato per spaccio di droga e indagato per sfruttamento della prostituzione, viene considerato un mito, e "tutti quelli che lo condannano lo fanno perché in realtà sono invidiosi".

La società, nel De Nicolò-pensiero, è divisa tra leoni e pecore. Tarantini viveva da leone, gli altri, invidiosi, vivono "cent'anni da pecora".

"E' tutto mosso dall'invidia, anche verso Berlusconi". La ragazza non concepisce neanche l'esistenza di valori diversi dai propri, quindi chi critica un certo tipo di comportamento, per lei lo fa solo per invidia.

Le persone si possono vendere, non solo è lecito, anzi è un bene. "Se tu sei una bella donna e ti vuoi vendere, tu lo devi poter fare".

"La bellezza è un valore", quindi deve essere monetizzabile, e "viene pagato come la bravura di un medico". Tanto, se un imprenditore non usa la "donna-tangente", "userà le mazzette".
L'onestà è un ostacolo per il successo: “quando sei onesto non fai un grande business: rimani in piccolo.”

Nella società vige la legge del più forte ("qui è la legge di chi è più forte, di chi è leone"), dove la ragazza non si rende conto che in base a questa logica un qualunque uomo potrebbe usarle violenza. La società è vista come una giungla, e lei ci si trova bene.

Il presidente viene chiamato "imperatore". Nei Paesi democratici uno che si atteggiasse o venisse considerato "imperatore" verrebbe visto con sospetto: evidentemente il suo potere sarebbe troppo grande per una società democratica. Per la destra italiana invece è un bene che ci sia un uomo così potente, e "tutti vogliono andare da lui". Infatti, "lui non paga un c.; è la gente che si fionda da tutte le parti. Lui apprezza, perché è un esteta.”

L'immoralismo come valore: “È la legge del mercato: più in alto vuoi andare più devi passare sui cadaveri. È così ed è giusto che sia così. Però qui non viene capito perché c’è un’idea cattolica, c'è un'idea morale.”
La ragazza è abbastanza lucida da rendersi conto che i suoi valori sono contrari a quelli cattolici. La morale, che lei rifiuta, viene accostata al cattolicesimo e alla sinistra.

Anche i diritti non hanno cittadinanza: "E' questo che mi fa inc., l'idea moralista della sinistra, che tutti devono guadagnare 2.000 Euro al mese, che tutti devono avere diritto.. no no e no!".

Siccome si fa così da sempre, va bene: “Io dico che questa definizione della donna-tangente è sbagliata, perché comunque è da che mondo è mondo.”

D'altro canto, per ottenere quello che è il valore più grande, il denaro, si deve essere disposti a tutto: "Se tu sei pecora, rimani a casa con 2.000 Euro al mese, se tu vuoi invece vuoi 20.000 euro al mese, ti devi mettere sul campo, ti devi vendere tua madre".

Va dato atto a Terry De Nicolò di essere andata fino in fondo nel mostrare i valori in cui crede una parte (purtroppo) consistente della società italiana. In questo quadro emerge come il sesso sia in fondo un dettaglio, un aspetto secondario: quello che conta sono i soldi e il potere.

Per questo non c'è l'ombra di alcuna forma di liberazione, in questa mercificazione assoluta dei rapporti umani.

Ed è questo l'errore che commette Giuliano Ferrara, quando ci fa credere che "Berlusconi ha liberato psicologicamente gli italiani". Essere schiavi dei propri vizi non è esattamente una forma di liberazione, come non lo è cedere agli idoli del proprio tempo.

D'altro canto questa visione della società come giungla dove domina la legge del più forte, è funzionale alla destra intesa come la parte della società che partendo da una posizione privilegiata, ha (o crede di avere, prima che crolli tutto) l'interesse a sopprimere l'idea di diritto e di uguaglianza.

Mentre in tutto il mondo ridono di noi, noi ci teniamo un Presidente del Consiglio indagato in diversi processi, e per reati anche gravi. Credo che la mancanza di morale sia una delle caratteristiche più tipiche dell'Italia, rispetto ad altri Paesi. Morale intesa in primo luogo come etica pubblica, come rispetto dell'altro come persona dotata di dignità e di diritti, come rispetto delle regole che sole rendono possibile la convivenza civile.
Berlusconi ha tratto vantaggio dall'esistenza di questo tipo di idee, così chiaramente esposte da Terry De Nicolò, anche se con le sue televisioni, il suo stile di vita e le sue dichiarazioni ha contribuito negli ultimi trent'anni a diffonderle sempre di più. E con i suoi difensori come Giuliano Ferrara ha contribuito a sdoganare l'immoralismo come sistema di valori.
Del resto, l'idea che "così fan tutti", che l'Italia sia un grande bordello e che quindi vada tutto bene così, è propagandata dai giornali di destra, come abbiamo visto tempo fa riguardo al Giornale.

A questo punto sarebbe fin troppo facile accostare la decadenza economica dell'Italia a questa decadenza di valori, ma non credo che questa considerazione si discosti molto dalla realtà. Non è certo con questa mentalità che si costruiscono aziende solide che possano competere nei mercati internazionali, che si costruisce una società dove ciascuno fa il proprio dovere. Quello che per qualcuno è soltanto una vita da pecora.

Link: Il video dell'intervista

lunedì 5 settembre 2011

Decrescita (in)felice?


In quest'epoca di crisi gli economisti, gli industriali, i sindacalisti e anche i politici (di opposizione) chiedono a gran voce misure per la "crescita". La crescita, si argomenta, è necessaria per assorbire la disoccupazione e il debito pubblico, per mantenere in vita lo stato sociale in un'epoca in cui la popolazione invecchia e quindi aumentano le spese per sanità e pensioni ecc.

A queste voci però si contrappone quella del movimento della cosiddetta "decrescita felice", che addirittura propone di andare nella direzione opposta: decrescita anziché crescita, contrazione del commercio internazionale e degli spazi dominati dal mercato.

Chi ha ragione?

I sostenitori della "decrescita felice" hanno dalla loro parte molti argomenti corretti.
Essi fanno notare come nel conteggio del PIL (il Prodotto Interno Lordo) vengano inserite le merci e non i beni, per cui i beni utilizzati che non sono immessi nel mercato non vengono conteggiati. Ad esempio i milioni di contadini cinesi che emigrano nelle campagne e iniziano ad acquistare il cibo di cui si nutrivano quando vivevano nei campi che coltivavano in proprio o nelle fattorie collettive, ora "mangiano ufficialmente" mentre prima ai fini del calcolo del PIL era come se non mangiassero. E' anche per questo che in molti Paesi africani si dice che ci siano persone che vivono "con meno di un dollaro al giorno": questo non significa che esse devono sostentarsi con meno di un dollaro al giorno, ma che gran parte delle risorse che utilizzano per vivere, le prendono al di fuori del mercato.
Allo stesso modo, nei Paesi industrializzati è possibile togliere una parte delle attività umane dal mercato, ad esempio spostandosi a piedi anziché con l'automobile, producendo in proprio il cibo attraverso la coltivazione dell'orto ecc. Come esempio si ricorda l'ormai famoso yogurt fatto in casa come alternativa all'acquisto dello yogurt industriale.
L'idea non è solo quella di ridurre le spese per avere la possibilità di lavorare di meno e quindi di migliorare il proprio stile di vita (da ciò l'aggettivo "felice" legato al termine "crescita"), ma anche di ridurre l'impatto ambientale delle attività economiche legate al mercato, dall'uso delle materie prime all'inquinamento prodotto dal trasporto delle merci, all'adulterazione dei cibi.
I sostenitori della decrescita felice esprimono da un lato una preoccupazione per la sostenibilità ambientale del modello di sviluppo basato sul consumismo, dall'altro lato però vogliono offrire una visione diversa della società, che non solo riduca lo spostamento delle persone e delle merci, ma che sottragga anche una quota maggiore delle attività umane al mercato.
In altre parole, la decrescita felice non nasce come risposta all'attuale crisi economica, ma nasce semmai come risposta al culto del mercato e del Prodotto Interno Lordo come suo indicatore.

Detto ciò, la teoria della decrescita felice mi lascia molte perplessità.

La produzione di beni e servizi è stata ed è una buona indicazione del livello di sviluppo raggiunto da un Paese, e il mercato è stato il sistema in cui si è verificato tale sviluppo. Banalmente, il mercato consente di produrre ciò di cui c'è bisogno: se io sono disposto a pagare per avere x, vuol dire che x per me ha un valore. Il mercato non sarà poi efficiente al 100%, ma questo non significa che vi siano altri sistemi più efficienti. In ogni caso, tra Paesi che hanno un PIL pro capite analogo, cioè in cui, nella produzione di beni e servizi secondo il classico indicatore economico, l'ordine di grandezza è simile, il livello di sviluppo sociale è più o meno lo stesso: attualmente non esistono Paesi che hanno un basso PIL e che però sono avanzati dal punto di vista culturale, tecnologico ecc. Certo, si può dire che ad esempio la Svezia è più sviluppata degli Stati Uniti, perché ha una speranza di vita più elevata o una mortalità infantile più bassa, ma la Svezia è pur sempre un Paese industrializzato, che ha fatto propria la logica del mercato, sia pure temperata dallo stato sociale. Solo i Paesi socialisti hanno più o meno raggiunto lo stesso tenore di vita di quelli occidentali senza avere un'economia di mercato, salvo crollare prima di averli raggiunti. E comunque anche i Paesi socialisti avevano basato la propria economia sullo sviluppo industriale (tra l'altro con un livello di inquinamento molto più elevato).
Allo stato attuale, dunque, la decrescita felice si configura più che altro come un'utopia, o magari come una indicazione che possono seguire i cittadini dei Paesi ricchi per ridurre in parte le loro spese ed ottimizzare le risorse. E' chiaro che per un singolo o una famiglia, può essere una mossa intelligente quella di cambiare stile di vita e di ridurre le spese, e magari di lavorare meno e avere più tempo libero, di spostarsi a piedi riducendo lo stress ecc.
Ma ho l'impressione che i sostenitori della decrescita felice vadano oltre e sognino una società senza mercato. Sembra che il loro ideale sia il Chiapas... Non stupisce dunque che in essi sia presente la classica critica nei confronti dei "bisogni indotti", e che usino toni paternalistici nei confronti dei popoli ancora non sviluppati. Se fenomeni come l'emigrazione di massa continuano a verificarsi, non sarà soltanto per la "deformazione mentale" di cui sarebbero vittima i contadini che evidentemente non si rendono conto di quanto sono felici nelle campagne. Come accadeva a coloro i quali emigravano dalle nostre campagne meridionali negli anni '50, che vivevano secondo gli standard della "decrescita felice" (autoproducevano la gran parte dei beni che utilizzavano) eppure stranamente sognavano una vita diversa... Pretendere che la gente faccia ciò che non vuole fare e non faccia ciò che vuole è un'indice di scarso senso liberale, di scarsa tolleranza.
Certamente è vero che "i soldi non sono tutto", ma questa è un'idea che è già diffusa anche nelle economie di mercato. Che l'uomo non si trasformi mai nell'homo oeconomicus, ormai lo hanno capito tutti, tranne i fondamentalisti del mercato che sostengono tesi assurde più che altro per interesse.
L'impressione è che i sostenitori della decrescita felice tendano a mitizzare lo stile di vita nelle società preindustriali, esaltando elementi come lo scambio, la condivisione, la socialità, il tempo ecc. Questi saranno anche aspetti interessanti da riscoprire (anche se personalmente, sarò un cittadino obnubilato e alienato, ma non vorrei tornare alla vita delle campagne di cento anni fa), ma un giudizio se vuole essere equilibrato deve tenere presenti anche gli elementi negativi. Ad esempio, senza il commercio internazionale si tornerebbe al rischio di carestie in seguito alle calamità naturali (siccità, alluvioni ecc.). In caso di una siccità o di una gelata devastante, sarebbe interessante vedere come si organizzerebbero gli orti a chilometro zero...

I sostenitori della "decrescita felice" sostengono che ci siano lavori più belli di altri, esaltando ad esempio l'agricoltura o il lavoro domestico, e considerando alcuni lavori come "inutili". Anche questo è a mio avviso un segno di atteggiamento intollerante. Anche l'idea che i Paesi africani non debbano uscire dall'economia di sussistenza e non debbano entrare nella logica dello sviluppo, mi pare poco sensata. E' facile, da parte di chi vive in una società sviluppata, con l'acqua corrente e l'elettricità in casa, dire "tu non ti devi sviluppare".
In realtà la tecnologia può offrire gli strumenti per evitare le ricadute negative dello sviluppo, senza costringerci a diventare tutti contadini per compiacere le visioni socio-economiche di qualche professore. Sarò arretrato, ma in attesa che mi si dimostri la fattibilità della decrescita (senza l'uso della forza, s'intende) io rimango ancorato allo "sviluppo sostenibile".

Link: La decrescita felice su Youtube (primo video di 9) spiegata da Maurizio Pallante.