venerdì 1 ottobre 2010

Il Paese del capitalismo straccione

Lo sfruttamento dei lavoratori sta tornando in auge in Italia, come strumento principale utilizzato dai "datori di lavoro" per fare profitti. Il fenomeno è più diffuso al centro-sud (da Roma in giù) che al nord, ma si presenta in tutto il Paese. Alla base del fenomeno c'è la scarsa produttività del sistema, che per recuperare competitività deve (o vuole) scaricare i costi (umani oltre che economici) sui lavoratori. Infatti l'Italia ha i salari più bassi d'Europa, e il livello dei salari è legato in ultima analisi alla produttività del lavoro. Un Paese che ha poche imprese che fanno ricerca scientifica, che produce beni a scarso valore aggiunto, e dove la tassazione è molto elevata, non può certo produrre salari elevati.
La politica ha assecondato questa tendenza, introducendo una flessibilità del lavoro troppo elevata (dapprima col pacchetto Treu del '97 e poi con la legge Biagi del secondo governo Berlusconi), anche a compensazione della troppo rigida legislazione tradizionale sul lavoro. Il risultato è stata la nascita del precariato, un fenomeno unico in Europa, vale a dire flessibilità senza diritti e senza ammortizzatori sociali. La precarietà tra l'altro alla lunga non giova neanche alle imprese, perché non le spinge a ristrutturarsi e a migliorare la loro produttività. Il risultato è che si scaricano sui lavoratori le inefficienze del sistema, accentuando le disuguaglianze sociali. La crisi economica sta peggiorando ulteriormente la situazione, perché dal momento che già avere un lavoro è un privilegio, le aziende si sentono libere di sfruttare i lavoratori quanto vogliono. Meglio lavorare troppo e mal pagati che non lavorare per niente. Intanto, mentre il governo tira a campare per consentire al suo capo di non andare in galera, l'opposizione litiga sul papa straniero e amenità consimili.

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