martedì 25 ottobre 2011

Il divorzio


Il divorzio tra il governo e la Confindustria, sancito dalle parole della sua presidente Marcegaglia che ha chiesto un cambio di governo, può apparire un fatto incredibile, se si pensa che il Presidente del Consiglio è un imprenditore, che si è sempre detto dalla parte degli industriali, e dieci anni fa, da poco insediato al governo, pronunciò la famose frase nell'assemblea di Confindustria: "il vostro programma è il mio programma". Inoltre Berlusconi ha sempre sostenuto che la sinistra odia chi produce, e che se governasse, produrrebbe miseria e povertà.
Sarà stato un caso, ma ogni volta che al governo c'è stato il centro-sinistra, il Pil italiano è cresciuto, sia pur di poco, più di quanto sia cresciuto col centro-destra al governo. Ma non è questo il punto.
Il punto è che da quando si è capito che la crisi non è finita, e anzi è destinata a durare, gli industriali, e per la verità anche gli economisti e i sindacati, hanno cominciato a chiedere al governo riforme strutturali. Da quando poi, dal giugno scorso, è iniziata la nuova crisi nei mercati, anche l'Unione Europea ha cominciato a fare richieste pressanti ai governi dei Paesi indebitati, per l'attuazione di riforme strutturali, in grado di far ripartire la crescita.
Ma perché il governo non ci sente? Perché non fa nulla di ciò che gli viene chiesto, e addirittura arriva a dire che la crescita non si può fare per decreto e che lo sviluppo non dipende dal governo?
A mio avviso con la crisi si sta inaugurando una nuova epoca, che sancisce il divorzio tra gli industriali e i lavoratori da una parte, vale a dire la parte produttiva del Paese, e la parte privilegiata e parassitaria che ormai ha interessi diversi. Nello stesso tempo, si realizza una convergenza tra aziende e lavoratori, che più che in passato si rendono conto di avere sostanzialmente gli stessi interessi: che il sistema sia efficiente per consentire alle aziende di misurarsi sui mercati.
Il centro-destra, che fino a questo momento aveva mediato tra le due parti, da una parte le aziende e dall'altra le classi privilegiate e parassitarie (politici e amministratori, percettori di rendite, professionisti ecc.), ora non ce la fa più, perché le due classi chiedono cose diverse. Per la verità, la mediazione realizzata da Berlusconi era già precaria negli anni scorsi, e si basava su generiche promesse di riformare la burocrazia statale, di ridurre le imposte, di fare grandi opere ecc., senza però impegnarsi veramente a farle. A tutto questo si aggiungeva la promessa della Lega di rendere più efficienti le amministrazioni locali con il federalismo fiscale. Ma finché non c'era l'urgenza di fare queste cose, il centro-destra poteva tirare a campare, e i suoi elettori potevano pensare: "speriamo che nei prossimi anni si faccia qualcosa, nel frattempo, meglio avere al governo loro, i nostri amici, che la sinistra".
Ora, sta tutto cambiando. La profondità della crisi ci ha mostrato che la globalizzazione prevede Stati efficienti, burocrazie snelle, tasse basse, servizi efficienti. Il contrario dell'Italia. E chi non è efficiente, muore, come mostra il caso della Grecia.
E quindi, le contraddizioni stanno esplodendo. Gli avvocati e i rappresentanti delle altre professioni che siedono in Parlamento, non ne vogliono sapere di liberalizzazioni. I parlamentari e i politici locali non ne vogliono sapere di tagli agli stipendi e al numero dei rappresentanti. I dipendenti pubblici e privati prossimi alla pensione non ne vogliono sapere di andare in pensione più tardi. Quindi, non si fa nulla.
Insomma, stanno esplodendo le contraddizioni di un Paese in cui ciascuno cerca il proprio interesse, il proprio privilegio, senza curarsi degli altri. Senza un senso dello Stato o del bene comune.
Alla lunga ci rimetteremo tutti, ma intanto i primi che si lamentano sono quelli che operano nel mercato e si rendono conto da subito che così non si può andare avanti.

sabato 15 ottobre 2011

Viva il default?


Il movimento degli "Indignados", che si sta diffondendo in diversi Paesi dell'Occidente, è in fondo il naturale risultato della crisi che si prolunga e priva del lavoro e di un futuro stabile e sicuro milioni di giovani. All'interno di questo movimento si sta però diffondendo un'idea che può sembrare curiosa, quella di "tifare" per un default dello Stato, in modo da evitare che siano i cittadini a dover pagare una crisi che sarebbe stata scatenata dalle banche. La paura di finire come la Grecia, costretta a misure d'austerità per ripagare i debiti contratti, e l'esempio dell'Islanda, offrono una facile conclusione a molti: facciamo come l'Islanda e non come la Grecia, ripudiamo il nostro debito e riprendiamoci la nostra sovranità.
Ma ha senso questo discorso? il default sarebbe veramente la soluzione?
Ovviamente no. In primo luogo va detto che la tesi secondo la quale "la crisi è stata scatenata dalle banche" è troppo semplicistica. Intanto "le banche" che avrebbero causato la crisi sono le grandi banche americane, con le loro spericolate operazioni di finanza creativa, e non le banche di tutti i Paesi; inoltre, queste operazioni non sono servite soltanto a garantire profitti alle banche stesse, ma anche a tenere artificialmente alto il tenore di vita dei "consumatori" americani, con la complicità della politica che vedeva di buon occhio questa moltiplicazione dei pani e dei pesci. Basti pensare ai mutui subprime, che dovevano consentire a tutti di acquistare una casa, magari una villa, con la benedizione dell'allora presidente Clinton.
Va poi fatta una distinzione tra i Paesi anglosassoni (e l'Islanda con loro), affogati nei debiti privati, e i Paesi mediterranei, come l'Italia e la Grecia, in cui il debito è soprattutto pubblico e non è dovuto alle banche malefiche, ma allo Stato inefficiente e spendaccione, oltre che ad una elevata evasione fiscale. In altre parole, il debito pubblico greco o italiano non è stato creato dalle banche, ma dai politici, dagli amministratori locali, e da tutti noi, quando non paghiamo le tasse o ci facciamo raccomandare per un posto di lavoro nel settore pubblico o per favori di vario genere, quando prendiamo o diamo tangenti, o quando votiamo senza curarci dell'onestà e della moralità dei nostri politici.
E siccome il debito pubblico italiano è detenuto in buona parte dai privati italiani, un default avrebbe ricadute negative in primo luogo per i cittadini italiani. Anche perché se lo Stato fallisse, non potrebbe più pagare gli stipendi pubblici e le pensioni (diciamo, dei genitori e dei nonni degli indignati).
Poi è vero che le banche soffrono per la crisi dei debiti pubblici, ma non bisogna confondere la causa con l'effetto. Le banche possiedono titoli del debito, ma almeno nei Paesi mediterranei, il debito pubblico non l'hanno creato loro. Se adesso i governi europei sono costretti a mettere sul piatto miliardi di Euro per salvare le banche, lo fanno in realtà per salvare i bilanci pubblici dei rispettivi Paesi e dunque per salvare l'Unione Europea.
Anche l'accusa nei confronti della Germania di voler "affamare" la Grecia non ha senso, perché il fallimento della Grecia deriva in primo luogo dal fatto che il suo precedente governo ha truccato i conti, nascondendo un enorme deficit (che viaggiava verso il 15%) e presentandolo come un deficit normale (il 3% del Trattato di Maastricht). In Grecia si è pensato che entrare nell'Euro volesse dire andare ad una festa dove si mangia e si beve a spese degli altri. Invece voleva dire entrare in un gruppo dove ci sono determinate regole, dettate da Paesi nordici austeri ed efficienti, e quindi sarebbe stato necessario adeguarsi, diventando un po' tedeschi.
Ora, può anche darsi (anzi è praticamente certo) che la Grecia non sia più in grado di ripagare i propri debiti e dunque dovrà dichiarare o contrattare una qualche forma di default, ma questo non significherà la fine di tutti i problemi, perché il default significa povertà e miseria per anni (in Argentina ha significato: migliaia di persone che vivevano rovistando nell'immondizia). Nella situazione della Grecia il default può essere il male minore, ma noi italiani piuttosto che tifare per il default dovremmo sperare di non arrivare nella situazione della Grecia.
Per quanto riguarda la crisi economica che dura ormai da tre anni, va ricordato che la crisi non è "mondiale", ma è occidentale, perché i Paesi emergenti continuano a crescere a ritmi sostenuti.
Personalmente penso che alla base della crisi dell'Occidente vi siano sì problemi legati alla forma che ha assunto il capitalismo, e non per una pura e semplice "colpa delle banche", ma perché il sistema è diventato insostenibile dal momento in cui è diventato un sisterma basato sul consumismo, cioè sui consumi dei privati al di sopra delle reali possibilità dei cittadini, che si sono trasformati in consumatori. A margine di questa crisi del consumismo, vi sono Paesi come l'Italia e la Grecia in cui è stato il settore pubblico a spendere più di quanto fosse sostenibile. Insomma, fare di tutta l'erba un fascio e confondere la Grecia con gli Stati Uniti o l'Islanda non ha molto senso.
Detto ciò, siccome la democrazia non è un'aula universitaria, è giusto che le classi dirigenti nel loro complesso (quindi anche i banchieri) diano una risposta ai milioni di giovani senza certezze e senza futuro che scendono sempre più spesso in piazza a protestare.