venerdì 18 novembre 2016

Perché votare No

Premetto che non provo simpatia per i partiti che stanno facendo campagna per il No al Referendum sulla riforma costituzionale del 5 dicembre, perché come al solito in Italia prevalgono la sterile litigiosità e la tattica di breve periodo (tutti dicono No per far fuori Renzi), inoltre non apprezzo il conservatorismo di una certa sinistra, che sostiene ideologicamente che la Costituzione italiana sia la più bella del mondo (concetto reso popolare da Benigni: ma chi ha letto le altre costituzioni? e se uno non le ha lette, come può sapere qual è la più bella?), e che qualunque cambiamento sarebbe una sciagura (peraltro lo stesso Benigni si è poi espresso per il Sì, spiegando che con "più bella del mondo" intendeva la prima parte, quella dei principi, che non viene toccata dalla riforma).
Che la nostra Costituzione sia per certi aspetti superata, dato che quando fu fatta uno scopo fondamentale era evitare che tornasse un dittatore, e quindi dava troppo poco potere al governo, e che abbia bisogno di un "tagliando", lo si dice da almeno trent'anni, ma ogni volta che si va al sodo, prevalgono sempre i distinguo e alla fine non si conclude niente.
Inoltre penso che l'Italia abbia un drammatico bisogno di riforme, e so (e dico da tempo, ovviamente non da solo) che l'Italia è un paese in declino, che non è più in grado di crescere, perché ha una pressione fiscale troppo alta rispetto ai servizi che lo stato dà in cambio, e che di questo passo c'è il rischio che prima o poi i conti pubblici saltino.
D'altro canto, la vittoria del No sancirebbe la sconfitta di tutto il Parlamento, perché in una legislatura che si voleva costituente avrebbe perso mesi dietro a una riforma che poi sarebbe stata bocciata, e perché sarebbe l'ennesima prova che l'Italia è un paese fermo, e comunque se Renzi si dovesse dimettere ne potrebbe derivare un caos politico, dato che il fronte del No è unito soltanto, appunto, nel dire No, ma per il resto non ha un progetto comune.

Tuttavia, seppur a malincuore, mi trovo a dover votare No al Referendum, e per due motivi: 1- perché la riforma è fatta male, 2 - perché la legge elettorale detta Italicum, che prevede il ballottaggio tra le due liste che hanno preso più voti al primo turno, e che piaccia o no è collegata al Referendum perché è stata approvata solo alla Camera, e dunque sarebbe utilizzabile solo se vincesse il Sì, darebbe tutto il potere ad un solo partito, che magari al primo turno ha preso il 25 o il 30%.

Partiamo dal punto 1. Non affronterò tutti i punti della riforma, ma citerò un aspetto che già da solo mi sembra sufficiente a bocciarla. Sul fatto che alcune competenze tornino allo Stato, dopo che la riforma del Titolo V fatta dal centro-sinistra nel 2000 aveva creato un conflitto continuo tra Stato e Regioni, si può o no essere d'accordo: qualcuno potrebbe preferire il federalismo, cioè un sistema in cui le Regioni hanno in mano diverse competenze, ma hanno anche un'autonomia fiscale, tuttavia, se la strada scelta dal governo è l'opposto, cioè il ritorno di un maggiore centralismo, allora perché sono rimaste in piedi le Regioni a statuto speciale? Questa è veramente un'assurdità, tanto più che se passa la riforma sarà praticamente impossibile abolirle in futuro, dato che è scritto che le future modifiche si potranno fare solo con il consenso delle regioni stesse. E dato che è quasi impossibile che ad esempio la Sicilia rinunci ai trasferimenti a fondo perduto con cui alimenta uno scandaloso parassitismo, per avere una mezza riforma oggi ci giochiamo la possibilità di avere una riforma seria in futuro.

Per quanto riguarda il punto 2, trovo veramente assurdo che, in un'epoca in cui ormai l'elettorato è diviso in tre, con un partito populista che si è aggiunto ai tradizionali schieramenti di centro-destra e centro-sinistra (e non solo in Italia, basti pensare al Front National in Francia), l'Italicum forzi la mano con un ballottaggio che dà tutto il potere ad un solo partito. Il sistema maggioritario poteva avere un senso quando l'elettorato era diviso in due: dare un aiutino ad una coalizione che comunque già rappresenta la metà o quasi dell'elettorato è un conto, dare tutto il potere ad una delle tre forze che più o meno si equivalgono, è una evidente forzatura.
E' vero che al secondo turno la lista vincente otterrebbe la maggioranza assoluta dei voti (e da questo punto di vista non trovo accettabile la critica secondo cui se l'astensione fosse alta, rispetto alla maggioranza degli italiani il consenso verrebbe da una minoranza, perché in democrazia contano i voti validi, se uno non va a votare è un problema suo, e in ogni caso, il problema dell'astensione ci potrebbe essere anche in un sistema a turno unico), ma sarebbe comunque una forzatura, perché si costringerebbero gli elettori a scegliere tra le due liste arrivate per prime, che potrebbero rappresentare entrambe una minoranza degli elettori. Se addirittura il voto al primo turno fosse spalmato su dieci partiti, che prendessero tutti circa il 10% l'uno, si potrebbe arrivare al paradosso di dover scegliere tra due piccoli partiti, e il primo dei due prenderebbe la maggioranza assoluta e governerebbe da solo, non rappresentando che un decimo dell'elettorato.
Ora, è vero che se fossimo fortunati e la lista vincente risultasse una lista seria, di gente capace e preparata, potrebbe fare delle riforme senza doversi preoccupare del consenso di partiti minori che pensano solo alle poltrone o chiedono favori per gruppi elettorali di riferimento, come accade spesso con il sistema proporzionale, tuttavia non si deve esagerare con l'ottimismo, perché se una riforma non trova consenso nella società, rischia di essere ostacolata da un'opposizione non solo in Parlamento, ma anche nel Paese, che potrebbe portare a ritirarla. Basti ricordare l'abolizione dell'articolo 18 che Berlusconi tentò all'inizio degli anni 2000, e che fu fermata in seguito allo sciopero generale e alla manifestazione oceanica che i sindacati indissero a Roma.
Ma il vero pericolo è che la lista vincente non sia la lista seria e preparata di cui sopra, ma una lista di populisti e demagoghi, che potrebbe vincere promettendo miracoli, magari attaccando la casta e i cosiddetti poteri forti come va di moda di questi tempi. Ad esempio un partito come il Movimento 5 Stelle, che secondo i sondaggi è attualmente il primo partito, e comunque si è dimostrato una formidabile macchina da ballottaggi alle elezioni locali (a Parma, Torino e Roma ha vinto al secondo turno, dato che sono in grado di intercettare i voti degli elettori di destra orfani dei loro rappresentanti), se si votasse domani con l'Italicum vincerebbe facilmente. Dunque il risultato paradossale di questa riforma e di questa legge elettorale voluta da Renzi, potrebbe essere una vittoria dei 5 Stelle, che magari con solo il 30% al primo turno, si prenderebbero la maggioranza assoluta. E se attuassero il loro programma, che comprende l'uscita dall'Euro (già da sola capace di creare un disastro economico) e dalla Nato, più altre chicche come la nazionalizzazione delle banche e il reddito di cittadinanza, ci porterebbero al disastro.
Peraltro i 5 Stelle non solo stanno facendo campagna per il No, anche se gli converrebbe che vincesse il Sì, ma sostengono anche una legge elettorale proporzionale, e dato che dal 1948 a oggi alle elezioni politiche nessuno ha mai preso il 50% da solo, in pratica stanno ammettendo di non voler governare. Poi per carità, qualora prendessero la maggioranza assoluta dei voti, avrebbero il diritto di governare: se gli italiani si vogliono suicidare, ne hanno il diritto. Ma una legge elettorale che mette la vittoria sul piatto d'argento ai 5 Stelle (o ad altri demagoghi ancora peggiori, come ad esempio la Lega di Salvini) non mi pare l'idea migliore, tanto più in questi tempi di populismo dilagante.
La nostra Costituzione è stata fatta dopo vent'anni in cui ha dominato uno come e peggio di Trump, ed è fatta apposta per evitare di dare tutto il potere a uno solo. Forse venti o trent'anni fa sarebbe stato meglio cambiarla, in modo che anche l'Italia potesse fare quelle riforme necessarie per adattarsi a un mondo globalizzato, senza cadere preda dei soliti veti incrociati. Abbiamo perso un'occasione che forse non tornerà più, anche se la Costituzione è stato solo un ostacolo, peraltro neanche il più grande, perché comunque le riforme se c'è la volontà politica si fanno anche col sistema proporzionale e col bicameralismo perfetto.
Ma comunque ormai siamo entrati in un'era diversa, quella del riflusso della globalizzazione e del populismo: ora, in quest'epoca di trumpismo dilagante, in cui la gente tende a votare per il più pazzo, per quello che urla e insulta di più, o che comunque promette la luna nel pozzo, più spesa e meno tasse, i dazi sui prodotti stranieri ma la possibilità di esportare in tutto il mondo, la moneta propria da stampare a volontà rendendo tutti ricchi ecc., votare sì al Referendum, soprattutto se prima non si cambia la legge elettorale, che consente al capo di un partito di nominare i parlamentari e poi gli dà tutto il potere, sarebbe un suicidio.
I sostenitori del Sì ricordano però che il Referendum non è sulla legge elettorale, e che c'è un documento del Pd in cui la direzione del partito si impegna a cambiare l'Italicum dopo il Referendum. Ma ci si può fidare di un documento di questo tipo? Se ci fosse veramente la volontà di cambiare l'Italicum, perché non lo hanno cambiato prima? Si può votare sulla fiducia che lo cambieranno dopo, tanto più che Renzi in passato ha dato prova di non essere un uomo di parola (ad esempio quando promise che non sarebbe andato al potere senza essere passato dalle elezioni, o quando disse a Letta "stai sereno" e dopo lo disarcionò)? Come si dice cca nisciuno è fess, e quindi prima vedere cammello, grazie.
Io penso che Renzi, qualora dovesse vincere, non cambierebbe l'Italicum, dato che è una legge elettorale che si è costruito su misura per poter prendere tutto alle prossime elezioni, e sull'onda del successo, galvanizzato dalla vittoria, vorrebbe andare allo scontro finale coi 5 Stelle, convinto di potercela fare. Una scommessa sulla nostra pelle che non è il caso di accettare.
D'altro canto, anche se poi vincesse Renzi, che cosa cambierebbe? Davvero vogliamo credere che se fino ad ora le riforme importanti per il Paese non sono state fatte, e neanche da lui, dopo che alle elezioni europee aveva preso il 41% e i sondaggi davano il suo gradimento nell'elettorato al 65%, è colpa del bicameralismo perfetto? Per carità, il sistema è eccessivamente farraginoso, ma non è quello il vero motivo per cui le riforme non si fanno: il motivo è che gli italiani non le vogliono, e quindi chi è al governo, se non vuole suicidarsi (come fece Schroeder, che dopo le riforme Hartz del 2003, che consentirono alla Germania di essere attrezzata per la crisi e diventare il primo esportatore mondiale, perse le elezioni, e stiamo parlando della ben più seria Germania, dove l'elettorato è molto più colto e consapevole del nostro), deve menare il can per l'aia, agitarsi, fare grandi promesse, sostenere di stare facendo grandi cose, e parlare d'altro.
A ben guardare lo stesso Referendum va in questa direzione: stiamo discutendo da mesi su una riforma fatta male, che comunque non cambierà il destino del Paese, come se fosse una questione di vita e di morte.
Ricapitolando, il Referendum è solo un diversivo per non affrontare i problemi veri del Paese. E se vince il Sì, si consegna il paese a Grillo, che sarebbe l'apoteosi finale, il giusto suicidio di un Paese credulone.

giovedì 27 ottobre 2016

Di chi è l'Atac?


"GIÙ LE MANI DALLA NOSTRA ATAC
Vogliono togliere l’Atac ai romani ma noi non lo permetteremo!
L’Atac non si tocca perché è dei cittadini che l’hanno profumatamente pagata con le loro tasse. Per anni.
La strana alleanza Pd-Fi – sì, sono proprio quelli del Patto del Nazareno - ha votato una mozione in Senato per chiedere che l’azienda di trasporto pubblico romano venga commissariata.
Questa mozione della vergogna, che è un insulto a tutti romani, è stata presentata proprio da quei partitucoli che dopo aver spolpato per anni la nostra azienda, dopo averla sovraindebitata, dopo averla abbandonata, senza manutenzioni, senza servizi degni di tale nome, adesso vogliono chiuderla regalandola ai privati.
E lo fanno adesso perché vedono che i romani hanno dato fiducia ad un movimento che da quello scempio sta facendo rinascere un'azienda: 150 nuovi bus in arrivo, riordinare i conti, biglietti elettronici, corsie preferenziali e tanto altro per il rilancio.
I loro giochi sono finiti e allora, per evitare che qualcuno possa scoprire tutto il marcio, vogliono riprendersela ancora una volta.
E, soprattutto, mentre lo fanno scappano dalle loro responsabilità di governanti: avrebbero potuto dare un bel segnale con la riduzione degli stipendi e invece distolgono ancora una volta l'attenzione dalle loro responsabilità.
Ma stavolta non glielo permetteremo: se vogliono la guerra, la guerra avranno.
Il trasporto pubblico locale è un servizio essenziale, Atac è nostra.
Vergognatevi"

Questo post del sindaco Raggi spiega, se mai ve ne fosse bisogno, perché Roma (e probabilmente l'Italia) è destinata al fallimento. Perché i problemi vengono affrontati con ideologie che andavano (forse) bene 60 anni fa, ma certamente non oggi. Oggi si sa (perché i Paesi più avanzati lo hanno dimostrato con prove concrete positive, e l'Italia con prove concrete negative) che il servizio pubblico deve essere efficiente anche se di proprietà dello stato o di un ente locale, perché se è in perdita, i cittadini ci rimettono, dovendolo mantenere con le loro tasse, quindi più che essere "di tutti", diventa di quelli che ci lavorano, che grazie ad esso guadagnano, mentre per la collettività diventa soltanto una zavorra. Per il resto, non è necessario che un servizio pubblico sia per forza gestito dal pubblico, perché quello che conta non è chi possiede cosa, ma la qualità del servizio, quindi un servizio pubblico può essere anche gestito da privati.
Invece il post di Virginia Raggi trasuda ideologia, la vecchia ideologia statalista, da tutti i pori. In pratica secondo la Raggi i cittadini romani dovrebbero considerare l'Atac, l'azienda dei trasporti più inefficiente e costosa d'Europa, come "cosa loro". Invece di essere ben felici di liberarsene, in modo da non dover più pagare le addizionali locali più alte d'Italia, per mantenere un carrozzone che non è in grado di assicurare un servizio di trasporti decenti, ma in cambio ha quasi 12.000 dipendenti, quando ne basterebbero un terzo, secondo la Raggi dovrebbero dolersene. Certo deve essere un gran dolore perdere un'azienda di trasporti che ha il record di dipendenti ma in compenso ha un parco di autobus stravecchi, con mezzi che hanno fatto milioni di chilometri e si rompono in continuazione (a settembre il 32% dei mezzi era guasto).
E naturalmente le due cose sono collegate: gli autobus sono stravecchi perché non ci sono i soldi per comprarne di nuovi, e i soldi non ci sono perché il grosso delle spese dell'Atac se ne va in stipendi, oltre al fatto che quasi nessuno tra i passeggeri paga i biglietti. Quindi non per la "corruzione" o per "mafia capitale", ma perché la vecchia politica, la "casta", che i 5 Stelle dicono di voler superare, faceva regali alla "gente", in modo da tenersela buona e ottenere in cambio i voti.
Ora, sarà anche vero che sono in arrivo 150 autobus nuovi, che comunque sono stati ordinati dalla precedente amministrazione, ma il problema è che questi sono meno di un decimo del totale, oltre 2.000 autobus che hanno un'età media di 17 anni, mentre i 164 tram hanno in media 32 anni, le metropolitane 13 anni, e i treni della Roma-Giardinetti l'incredibile età di 55 anni.
Ora, se fosse stata un'azienda privata, l'Atac sarebbe fallita da tempo, ma fino ad ora la si è tenuta in piedi, facendola mantenere dai contribuenti (non solo romani, peraltro, ma di tutta Italia), seguendo la tradizione italica delle aziende pubbliche che accumulano debiti perché sono concepite come stipendifici per dirigenti e dipendenti, come lo era ad esempio l'Alitalia; e comunque è evidente che per risanare un carrozzone che ha accumulato 1,3 miliardi di Euro di debiti e spende il grosso in stipendi (536 milioni l'anno), ci vorrebbe un miracolo. Non solo i dipendenti sono troppi, ma ci sono anche troppi dirigenti (in media uno ogni mille dipendenti).
Per carità, la Raggi ha trovato una situazione già disperata (la colpa è delle precedenti amministrazioni, di centro-sinistra e centro-destra, che hanno lasciato crescere i debiti e invece di intervenire hanno continuato ad assumere, e da ultimo di Marino che non ha avuto il coraggio di portare i libri in tribunale, e ha pensato, come ora pensa la stessa Raggi, che l'Atac si potesse risanare in maniera soft) e quindi non ha colpe, ma è interessante notare la sua reazione, del resto perfettamente in linea con l'ideologia grillina: il pubblico è sempre buono, ciò che è pubblico è di tutti, anche se offre servizi scadenti e costa moltissimo ai contribuenti, e anche a quelli che non ne usufruiscono. Naturalmente non si dice che uno dei problemi fondamentali è l'eccesso di dipendenti, ma si accusa genericamente le precedenti amministrazioni di aver fatto debiti. Ovvio che con questi presupposti non è possibile risanare alcunché.
Il 16 ottobre scorso sarebbe stato il giorno in cui scadevano i debiti dell'Atac nei confronti delle banche (che ammontano a 182 milioni): se avesse dichiarato di non essere in grado di pagare, l'Atac avrebbe dovuto dichiarare default. Allora cosa ha fatto il Comune? Ha semplicemente rimandato, per l'ennesima volta, e di due anni, la scadenza del pagamento dei debiti che l'azienda deve allo stesso Comune (429 milioni), in modo che potesse versare un po' di denaro alle banche. Insomma, si continua a prendere a calci la lattina, in attesa di non si sa cosa, forse un miracolo. O forse, come ipotizzavo nel precedente articolo, dell'arrivo di un soccorso da parte del Governo (quando sarà a 5 Stelle?), cioè dell'ennesima vagonata di soldi pubblici (che, lo ricordiamo, sono dei contribuenti, non vengono dalla luna, anche se i 5 Stelle questo non sembrano averlo capito).
Ora sarà interessante vedere cosa si inventerà il Comune nel bilancio di fine anno, come potrà coprire il buco dovuto a questa entrata mancante. Ma sono sicuro che ci sapranno di nuovo stupire con effetti speciali, raccontando magari in un altro post su Facebook di come va avanti la "rivoluzione" (che in realtà si legge: restaurazione) dei 5 Stelle al Campidoglio.
Peccato, i 5 Stelle avrebbero potuto rappresentare un vero cambiamento, ma purtroppo hanno le stesse ideologie dei partiti che stanno provando a sostituire, anzi, ne rappresentano la parte più conservatrice, sembrano rimasti agli anni '80, ai mitici anni '80 del Caf in cui la politica regalava soldi a debito, credono che nell'epoca della globalizzazione un Paese, peraltro già iper-indebitato, possa vivere di spesa pubblica a gogo. E in fondo è per questo che ottengono un consenso così ampio: perché fanno credere (e la gente ci crede volentieri) che questo Paese sull'orlo del baratro per essere risanato non abbia bisogno di dolorose riforme, ma soltanto di amministratori onesti, che prendano stipendi un po' più bassi... in pratica che la crisi si possa far pagare alla casta.
La domanda è: quanto ci vorrà prima che si scontrino con la realtà? E quanti danni avranno fatto nel frattempo?

giovedì 20 ottobre 2016

Raggi e il fallimento di Roma


Non credevo che il Movimento 5 Stelle volesse vincere a Roma, in sostanza con questa vittoria si sono creati dei grossi problemi da soli. Già in generale per un partito populista governare è controproducente, dato che la prova del governo è molto più difficile che la protesta, e si è costretti a mostrare che non si possiede la bacchetta magica, e che le soluzioni semplici che si sosteneva di avere finché si era all'opposizione non funzionano. Ma dato che il caso di Roma è veramente disperato, vincere a Roma rischia di essere veramente un suicidio.
Probabilmente hanno accettato di "provare a vincere" perché, dopo il disastro di "Mafia capitale" e delle precedenti amministrazioni di centro-sinistra e centro-destra, hanno visto i sondaggi e hanno capito che non vincere era praticamente impossibile: sarebbe stato già di per sé una sconfitta. Per non vincere avrebbero dovuto scegliere un candidato impresentabile o improponibile, ad esempio un ventenne o un novantenne: sarebbe stata comunque una figuraccia. Oppure sono caduti vittime della loro stessa demagogia, e hanno pensato di essere veramente in grado di risolvere i problemi di Roma: per come la vedo io, Grillo si rende conto di non essere affatto in grado di risolvere i problemi e specula sul malcontento della gente, ma i militanti e chi si candida alle elezioni no, loro ci credono veramente. D'altro canto vengono scelti proprio con questo criterio, in base all'indice di credulità ai vaticini del Sacro Blog.
Come che sia, dopo quattro mesi dall'elezione a sindaco di Roma, Virginia Raggi non ha fatto sostanzialmente nulla. Alcuni dicono che non è vero che non ha fatto nulla, ma che ha già fatto dei danni, ad esempio qui. In ogni caso, sui problemi principali, il debito e le partecipate, in pratica non si è fatto nulla. C'è un motivo o è stata soltanto incapacità e impreparazione? E cosa accadrà adesso?
I primi tre mesi sono passati nel tentativo di nominare gli assessori, ma tra litigi, colpi di mano e dimissioni, ogni volta c'era da rinominare qualcuno. Ora in teoria sarebbe tutto a posto. Ma i problemi grossi della città non vengono affrontati. Perché? Per due motivi.
1. Il primo è che qualunque cosa facesse la Raggi, scontenterebbe una parte del suo elettorato, che essendo un elettorato composito (più o meno diviso a metà tra sinistra e destra) e unito solo nella protesta, quando si tratta di decidere, si divide su tutto. Il caso delle Olimpiadi è stato un buon esempio: la Raggi doveva decidere se confermare o no la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024; in campagna elettorale lei e gli esponenti del suo partito hanno lanciato sapientemente segnali contraddittori, in modo da prendere i voti indipendentemente dalle opinioni degli elettori (Di Maio ha detto a La7 che se avessero vinto avrebbero fatto le Olimpiadi perché loro sono onesti e quindi non rubano, la Raggi ha detto che avrebbe indetto un Referendum, mentre altri, a cominciare da Grillo, hanno detto che le Olimpiadi non s'hanno da fare. Alla fine, quando proprio non si poteva più continuare a prendere tempo, la Raggi ha deciso, e ha scelto per il no alle Olimpiadi.
2. Il secondo motivo, ancora più serio, è che per risolvere i problemi di Roma si dovrebbe sconfessare la diagnosi che il Movimento 5 Stelle fa dei problemi dell'Italia (e in questo caso di Roma), che si può sintetizzare in "è tutta colpa della casta". In sostanza, gli italiani si dividerebbero in una maggioranza di cittadini onesti (la "gente"), vittima del malgoverno, e in una minoranza di politici, imprenditori e banchieri (la "casta"), che li vesserebbe e con le sue malefatte avrebbe distrutto il Paese.
Basta riflettere un attimo per capire che questa è una semplificazione inaccettabile, se non altro perché siamo in democrazia: i "cittadini onesti" votano, e dunque hanno votato per decenni per quei partiti disonesti e incapaci che li avrebbero vessati. E perché lo hanno fatto? Semplice, perché in cambio hanno ricevuto qualcosa. Non tutti naturalmente, ma molti sì. Ma se Grillo avesse l'onestà intellettuale di ammettere questo, cadrebbe tutto il castello di carte che ha costruito, e verrebbe meno la "ragione sociale" del Movimento. D'altro canto, se si esclude i giovani che votano per la prima volta, quelli che ora votano il Movimento, prima per chi votavano? Oppure vengono da Marte?

Ora, il problema fondamentale di Virginia Raggi è cercare di mantenere la promessa di risolvere i problemi di Roma facendo pagare soltanto la "casta" e non la "gente".  Ma questo è impossibile.
Gli automobilisti che parcheggiano nelle isole pedonali o nelle strade in doppia fila sono gente o casta?
Gli inquilini degli appartamenti di proprietà del comune di Roma che pagano un euro al mese di affitto sono gente o casta?
I passeggeri della metropolitana e degli autobus che non pagano il biglietto sono gente o casta?
Le migliaia di dipendenti del Comunque e delle partecipate che sono stati assunti anche se non servivano e ora non hanno nulla da fare, ma prendono uno stipendio pagato dai contribuenti di tutta Italia, sono gente o casta?
E potrei continuare.
Ovvio che di fronte a questa situazione, è impossibile risolvere i problemi di Roma se prima non si fa un'operazione di verità, ammettendo che Roma è ridotta così anche per colpa della famosa "gente".
Questo però in teoria si dovrebbe fare in campagna elettorale, perché se ti sei presentato con un determinato programma, che non prevede tagli e sanzioni di nessun tipo alla "gente", dopo non si hanno i consensi per fare ciò che si dovrebbe fare.
In ogni caso, Roma ha accumulato e accumula debiti ogni anno, quindi bisognerebbe invertire nettamente la rotta.
Quello che la Raggi ha detto in campagna elettorale è che si può trovare più di un miliardo di Euro l'anno, colpendo non ben precisati "sprechi". Ora, un miliardo l'anno non è affatto poco. Sono mille Euro a testa tolti ad un milione di persone. O un milione di Euro a testa a mille persone. O centomila Euro a testa a diecimila persone. Insomma, se veramente ci sono questi sprechi così grossi, se c'è gente che ruba o in qualche modo riesce a intercettare tutti questi soldi senza averne diritto, vuol dire che ora c'è qualcuno (più probabilmente: una gran quantità di persone) che ci mangia (o meglio, ci campa). E se vai a colpire questi "sprechi", tutta questa gente si arrabbia, proverà a resistere, a protestare, e comunque dopo non ti voterà più.
D'altro canto, siccome Roma è una città sull'orlo del fallimento, non colpire questi "sprechi" (o quelli veri, laddove si trovano veramente) significa lasciare che la città fallisca. Oppure la sindaca potrebbe sperare che intervenga il governo con una vagonata di miliardi. D'altro canto, Roma è già stata salvata negli anni passati dai governi Berlusconi e Renzi, l'ultima volta con Marino due anni fa. Forse è un po' presto per chiedere di nuovo i soldi (che, è bene ricordarlo, arrivano dai contribuenti di tutta Italia, un Paese che già non ce la fa più con l'attuale livello di pressione fiscale, anche perché appunto spesso le tasse servono a pagare questi sprechi, e non per garantire servizi pubblici o per fare investimenti). Probabilmente i 5 Stelle aspettano di andare al governo e di pensarci loro. D'altro canto i 5 Stelle vorrebbero uscire dall'Euro, per poter fare tutto il deficit che vogliono, e poter stampare la moneta che serve per renderci tutti felici.
Insomma, questa è la situazione, una città praticamente fallita, degna capitale di un Paese a sua volta sull'orlo del fallimento, in mano a chi ha promesso la luna nel pozzo e ora è alle prese con la dura realtà.





martedì 18 ottobre 2016

Renzi (e l'Italia) alla frutta


Sono passati ormai due anni da quando Renzi ha gettato la maschera, e ha dimostrato di non voler risanare l'Italia e farla ripartire, quando ha mandato a casa Carlo Cottarelli, il commissario alla spending review, e ha messo in un cassetto il corposo studio che aveva individuato diverse voci di spesa da ridurre, in modo da poter abbassare le tasse e far ripartire l'economia. Nel frattempo, Renzi aveva trovato due nuovi commissari alla spending review, Roberto Perotti e Yoram Gutgeld. Dei due, solo il primo era veramente interessato a ridurre la spesa pubblica improduttiva, e infatti dopo aver lavorato inutilmente per un po' di tempo, accortosi che il suo lavoro non interessava nel novembre 2015 ha rassegnato le dimissioni, peraltro senza troppo rumore, mentre solo quest'anno ha rilasciato interviste, come questa e questa, in cui spiega che sostanzialmente non c'è la volontà di ridurre la spesa. Ora alla spending review è rimasto soltanto Yoram Gutgeld, che a quanto pare ci si trova benissimo, dato che non sembra interessato a ridurre la spesa improduttiva se non in minima parte (da alcune sue dichiarazioni emerge l'idea superata, di vecchio stampo keynesiano, che la spesa pubblica non deve essere ridotta, altrimenti il Pil si contrae).
Dunque abbiamo la situazione paradossale di un commissario alla spending review che non vuole ridurre la spesa pubblica.
La questione potrebbe sembrare noiosa, in realtà non lo è affatto, dato che ha a che fare con il declino dell'Italia, con il calo del benessere, con il fatto che l'Italia è l'unico paese occidentale (insieme forse al Giappone) che non cresce da vent'anni, e l'unico il cui reddito medio è tornato ai livelli di vent'anni fa. La situazione è grave soprattutto per i giovani, dato che il reddito degli anziani è andato addirittura aumentando (l'Italia ha la spesa pensionistica più alta del mondo), mentre i giovani non trovano lavoro, e quando lo trovano, rimangono precari e con redditi bassi.
Ricapitolando, la situazione è questa:
1 - La spesa pubblica italiana è troppo alta, e soprattutto è in gran parte improduttiva e parassitaria (per fare qualche esempio, abbiamo i politici e i giudici più pagati al mondo, migliaia di partecipate inefficienti e sprecone, migliaia di dipendenti pubblici di troppo che non hanno nulla da fare, migliaia di falsi invalidi, pensionati baby, pensionati d'oro ecc).
2- Per mantenere questa spesa improduttiva, lo stato deve sfruttare le aziende, che piaccia o no sono le uniche che producono ricchezza reale, tartassandole con un livello di imposte insostenibile. L'Italia ha infatti il Total tax rate (vale a dire l'insieme delle tasse e contributi che devono pagare le aziende) più alto al mondo.


A causa di questo folle livello di tassazione, alla gran parte delle aziende, dopo aver pagato le tasse, rimane poco e niente, e dunque esse non hanno la possibilità né di assumere, né di fare investimenti (che consentirebbero alle aziende stesse di crescere e quindi di assumere in futuro). Non a caso abbiamo un tasso di occupazione tra i più bassi dell'Occidente.
3- Dato che le aziende sono tartassate, il Pil non cresce.

Ora, Renzi in quasi tre anni di governo non ha fatto praticamente nulla per cambiare questo meccanismo infernale, e quindi non a caso l'Italia continua ad essere il paese europeo che cresce di meno: dobbiamo dunque certificare il suo totale fallimento in materia economica.
Ma allora, a questo punto ci si può chiedere, come è possibile che Renzi dice sempre di voler ridurre le tasse? Come è possibile ridurre le tasse senza ridurre la spesa? Questa è la stessa domanda che chi sa un po' di economia si faceva già all'epoca di Berlusconi, ma per fortuna di Berlusconi e di Renzi, la gente non si intende di economia, non ne sa nulla, e inoltre in Italia c'è una spiccata tendenza nell'opinione pubblica a credere alle favole, per cui il Presidente del consiglio può tranquillamente dire "stiamo riducendo le tasse", e molti gli credono. Anche perché entrambi hanno fatto il gioco delle tre carte, cioè hanno abbassato alcune tasse ben visibili (sia Berlusconi che Renzi hanno ad esempio tolto la tassa sulla prima casa), e poi ne hanno messe delle altre, o hanno lasciato che gli enti locali ne mettessero delle altre, per compensare. Non a caso la pressione fiscale non scende.

Ora possiamo capire facilmente la tattica di Renzi, che vorrebbe abbassare le tasse per motivi elettorali ma non vuole ridurre la spesa, cioè quella di fare più deficit possibile, usando però il termine meno compromissorio "flessibilità", che in realtà significa addossare alle future generazioni altri debiti. Ma siccome il debito pubblico sono tasse future, abbassare le tasse oggi a debito significa aumentarle (o costringere chi arriverà dopo ad aumentarle) in futuro. A fare deficit, come direbbero a Roma, ci sono buoni tutti, infatti lo hanno fatto anche i governi del passato, negli anni '80, all'epoca d'oro del Caf, a botte del 10% l'anno, mentre dopo l'entrata nell'euro, quando essendo entrati nell'Euro siamo stati costretti a non superare il 3%, Berlusconi e gli altri hanno cercato di avvicinarsi il più possibile a questo valore, e anzi ogni scusa era buona per superarlo (Berlusconi superò il 3% quando la Germania nel 2003 annunciò di voler sforare perché doveva fare delle riforme. "Benissimo!" dissero B. e Tremonti, "allora sforiamo pure noi" (naturalmente senza fare alcuna riforma).

In questa situazione, non è un caso che neanche il debito pubblico scenda. Il ministro dell'economia Padoan è andato dicendo per mesi che quest'anno il debito stava scendendo (ad esempio qui). Poi, di fronte ai dati che lo smentivano, recentemente ha dovuto ammettere che il debito non sta scendendo, però ha trovato naturalmente un colpevole esterno, in questo caso l'inflazione troppo bassa. Questo è veramente ridicolo, innanzi tutto perché ci si aspetterebbe che un ministro dell'economia sappia che siamo in un periodo di bassa inflazione in tutto il mondo, ma soprattutto perché questo significa ammettere che il governo non ha cercato di mettere a posto i conti pubblici, ha soltanto sperato che il debito si riducesse grazie all'inflazione, cioè grazie a un meccanismo che riducendo il valore reale degli stipendi e dei risparmi, impoverisce la gente in maniera silente. L'inflazione è una tassa occulta: che un governo speri che il debito pubblico scenda a causa dell'inflazione dice molto sulla sua serietà.

Per il momento la sostenibilità del debito italiano non è un problema, ma soltanto perché Mario Draghi, il governatore della BCE, con il quantitative easing sta comprando titoli di stato dei paesi europei, abbassando in questo modo i tassi reali. Ma nonappena smetterà di farlo (e prima o poi smetterà, forse già dall'anno prossimo), cosa faranno i mercati quando vedranno che l'Italia non ha ridotto il debito quando avrebbe potuto e dovuto? Ci potrebbe essere una fuga da parte degli investitori e dunque una nuova crisi dello spread come nel 2011, crisi all'epoca fu risolta proprio da Draghi con il famoso discorso del "whatever it takes" (farò qualunque cosa per salvare l'Euro). A quel punto, senza lo scudo di Draghi, rischiamo grosso. Insomma, siamo sull'orlo del baratro anche se non lo sa, e non lo dice, praticamente nessuno.

Ora con la Finanziaria (o Legge di stabilità) di quest'anno, per il 2017, il governo Renzi-Padoan conferma la volontà di tirare a campare, anzi, peggio, perché in vista del Referendum sulle riforme costituzionali, Renzi sta cercando di comprare i consensi e i voti distribuendo soldi a pioggia. Ce n'è per tutti, dai giovani agli anziani, dai dipendenti pubblici agli insegnanti. Naturalmente sono briciole, che non risolvono i problemi strutturali del Paese, anzi li aggravano. Il governo addirittura fa credere che fare deficit aumenti la crescita, come se i precedenti non dimostrassero ampiamente il contrario.

Come ciliegina sulla torta, Renzi essendo in difficoltà se la prende con l'Europa, accusandola di ridurre gli investimenti, ma in realtà l'Italia è il paese europeo che ha più di tutti ridotto gli investimenti, mentre ha lasciato crescere la spesa corrente. Se non avesse mandato a casa Cottarelli e avesse eseguito i suoi suggerimenti per ridurre la spesa improduttiva, si sarebbero liberate risorse per aumentare gli investimenti, l'unico tipo di spesa pubblica in grado di creare crescita., e/o di ridurre (veramente) le tasse. Ma siccome ridurre la spesa improduttiva è politicamente costoso, perché scontenta chi ci mangia, Renzi ha preferito non farlo, e ora il Paese ne paga (e ne pagherà) le conseguenze.
Per carità, è evidente che l'elettorato italiano non vuole riforme serie e dolorose, e che i partiti (e la sinistra Pd) che si oppongono a Renzi vorrebbero fare ancora più regali (basti pensare ai 5 Stelle che vorrebbero uscire dall'Euro per fare più deficit e per stampare moneta, e che propongono il reddito di cittadinanza che costerebbe decine di miliardi l'anno), ma rimane il fatto che Renzi non sta risanando l'Italia, e che è l'ennesimo finto uomo della Provvidenza che ci ha governato durante gli ultimi decenni di declino.

martedì 29 dicembre 2015

Gli errori dei no Euro


Negli ultimi tempi risultano molto attivi nei social network i fautori dell'uscita dell'Italia dall'Euro, guidati da esperti (o sedicenti tali...) di economia, che sono riusciti a convincere alcuni partiti politici (dai 5 Stelle di Grillo e Casaleggio, alla Lega di Salvini, ai Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni) sull'Euro come causa principale dei problemi dell'Italia, e di conseguenza sulla necessità di uscire per riprendere in mano la cosiddetta "sovranità monetaria".
Il fatto che in Italia molti diano la colpa all'Euro, è dovuto, oltre alla tendenza purtroppo diffusa ad attribuire ad altri i nostri problemi, anche alla coincidenza tra l'adozione della moneta unica e l'inizio della stagnazione che ormai prosegue da circa vent'anni. Ma negli altri paesi non è andata così. L'Italia è un caso unico, è l'unico paese che non riesce più a crescere tra quelli avanzati, che abbiano o no l'Euro, e soprattutto non riesce a riprendersi dalla crisi del 2008, come si vede nel seguente grafico, che mostra l'andamento del Pil dei paesi del G7.



Comunque, per dimostrare l'inconsistenza degli argomenti dei no-euro, riporterò i principali, e li discuterò in una maniera che spero comprensibile ed esaustiva, per quanto necessariamente sintetica.

- I cambi flessibili sono di gran lunga preferibili ai cambi fissi, è ovvio, è banale, lo dicono tutti gli economisti, e i premi Nobel.
In realtà la scienza economica non ha ancora stabilito se siano preferibili i cambi flessibili o i cambi fissi, e per verificarlo, basta consultare un qualunque manuale di economia, o un libro che si occupi tra le altre cose dell'argomento, come "Economia internazionale" di Paul Krugman e Maurice Obstfeld.


Si vedrà come sull'argomento è in corso un dibattito che dura da decenni, come entrambi i sistemi abbiano avuto i propri sostenitori (ad esempio Mundell per i cambi fissi e Milton Friedman per i cambi flessibili), e come entrambi abbiano vantaggi e svantaggi (ad esempio, i cambi fissi favoriscono il commercio internazionale ed evitano le guerre valutarie, quelli flessibili consentono di rispondere più rapidamente ad uno shock asimetrico attraverso la svalutazione). Ricordiamo comunque che il periodo di maggior crescita economica mondiale dell'umanità, vale a dire il ventennio 1951-1970, sia stato un periodo di cambi fissi. Anche l'Italia ha avuto il suo boom economico in un regime di cambi fissi, e non ha avuto problemi, né il bisogno di svalutare. Va comunque detto per la precisione che l'euro non è un sistema di cambi fissi, ma una moneta comune.

- L'Euro è la causa principale dei problemi dell'Italia.
Innanzi tutto, non accade mai che un paese vada in crisi per colpa della sua moneta. La moneta nel bene e nel male più di tanti problemi non li può creare, dato che quello che conta per la salute dell'economia di un paese è l'economia reale, cioè quello che si produce, come e quanto si produce, insieme alle "condizioni al contorno", che dipendono dall'efficienza dello stato, dalla burocrazia alla giustizia civile, dalla pressione fiscale alle infrastrutture. Se un paese è poco produttivo e/o male organizzato, non potrà stare bene né con l'Euro, né con la lira, né col sesterzio o con la pizza di fango del Camerun. Vice versa, se un paese è efficiente e organizzato, non avrà problemi con qualunque moneta, Euro compreso. Quanto ai problemi dell'Italia, sono appunto problemi reali che si risolvono solo affrontandoli, un'amministrazione pubblica inefficiente e costosa, una scuola e università non all'altezza degli altri paesi, infrastrutture obsolete, pressione fiscale troppo alta (almeno rispetto ai servizi che lo Stato dà in cambio), giustizia lenta e che non garantisce il rispetto dei contratti ecc. Poiché però è più facile sganciarsi dall'Euro e tornare alla amata e compianta (???) lira, molti preferiscono credere che sia possibile risolvere i problemi con questo semplice espediente. Dunque, chi vuole uscire dall'Euro non vuole risolvere i problemi reali dell'Italia. E' un po' come chi sogna l'albero di cuccagna, che consenta di fare soldi senza lavorare.
I no-Euro sostengono che l'Argentina, che fece default nel 2001 dopo esseri agganciato al dollaro, dimostra la perniciosità dell'aggancio a una moneta troppo forte. In realtà l'Argentina si agganciò al dollaro per risolvere dei problemi che aveva già, come quello dell'inflazione, che dimostra come la sua economia non fosse in buona salute. E d'altro canto quello del 2001 non è certo l'unico fallimento dell'Argentina, Paese tradizionalmente mal governato, che un secolo fa era uno dei più ricchi al mondo, ma non fu in grado di conoscere il boom del dopoguerra, e che era già fallito nei primi anni '80 (vedi sotto).

-Tutti i premi Nobel sono contro l'Euro, che è una idea assurda, folle, che non può funzionare.
Chi dice questo probabilmente non sa neanche quanti siano i premi Nobel (solo dal 2000 al 2015 sono stati assegnati premi Nobel per l'economia a 32 studiosi) e non credo proprio sia andato a chiedere la propria opinione a tutti, cosa che si dovrebbe fare se veramente si volesse conoscere l'opinione dei premi Nobel su questo argomento. In realtà ciò che accade è che ci sono alcuni premi Nobel che hanno una maggiore visibilità mediatica, che magari esprimono opinioni politiche, scrivono nei blog, rilasciano interviste ecc. In ogni caso, quasi mai, anche quegli economisti che si esprimono contro questa o quella politica economica dell'area Euro (come la cosiddetta austerità), dicono che l'Euro è un errore in sé, che non può reggere, che deve finire ecc. Né conosco premi Nobel che suggeriscano all'Italia di uscire dall'Euro per risolvere i propri problemi. Né conosco studi (cioè non articoli di giornale o interviste, ma paper pubblicati nelle riviste scientifiche e magari passati in peer review) che sostengano che l'Euro non può funzionare, che impedisce ai paesi che ne fanno parte di crescere ecc.

- L'Euro è stato voluto dalla Germania, per impedire ai paesi periferici e in particolare all'Italia di svalutare.
In realtà l'Euro è stato voluto dalla Francia, con il consenso dell'Italia e con l'avallo degli Stati Uniti, dopo la riunificazione tedesca del 1990 e la conseguente paura che la Germania tornasse a costituire una minaccia per l'Europa. Sostanzialmente alla Germania fu imposto di rinunciare alla propria moneta, o meglio di mettere in comune la propria moneta con gli altri paesi europei, in cambio del benestare alla riunificazione. La Germania accettò, pur rinunciando con dolore al marco, che era un suo fiore all'occhiello, chiedendo in cambio l'adozione di regole comuni.

- Una moneta forte come l'Euro è una sciagura per l'Italia e i paesi periferici; ogni paese dovrebbe avere la propria moneta, commisurata alla propria capacità produttiva.
Avere una moneta forte, come anche averla debole, ha i suoi vantaggi e svantaggi. Ad esempio una moneta forte comporta una bassa inflazione e quindi una maggiore tenuta dei risparmi. Ecco ad esempio l'andamento dell'inflazione in Italia: l'inflazione non è mai stata così bassa come con l'Euro. Negli anni '70, quando secondo i no-euro andava tutto bene perché avevamo una moneta sovrana libera di svalutarsi e stampavamo anche moneta, l'inflazione era molto più alta.


E' vero che negli anni '70 l'inflazione era più alta dappertutto, ma in Italia era ancora più alta che negli altri paesi, come si può vedere nella seguente tabella.


La moneta forte comporta poi un maggiore potere d'acquisto all'estero, e una più grande facilità di finanziare il proprio debito, quindi tassi di interesse più bassi, che consentono allo stato di finanziarsi a costi più bassi, e ai privati di indebitarsi pagando interessi più bassi (ad esempio contrarre un mutuo è diventato molto più facile da quando c'è l'Euro). Ecco ad esempio l'andamento dei tassi di interesse pagati dallo stato italiano; come si può vedere con l'annuncio e poi l'entrata nell'Euro, i tassi di interesse sono scesi molto, consentendo allo stato di risparmiare parecchio.


E' il cosiddetto "dividendo dell'Euro", il cui ammontare preciso non è facile da calcolare (bisogna considerare che i tassi di interesse nel corso degli anni '90 sono scesi un po' in tutto il mondo, e poi bisogna mettere nel conto anche l'inflazione, quindi calcolare l'interesse reale), ma indubbiamente c'è stato.
Lo si può vedere anche dal seguente grafico, che mostra come lo spread tra i paesi dell'area Euro si sia praticamente azzerato grazie all'Euro (il processo è iniziato prima perché i mercati tendono ad anticipare gli avvenimenti). In pratica, i paesi che avevano l'Euro hanno acquisito la credibilità tedesca, e questo era effettivamente una delle conseguenze che ci si aspettavano dall'introduzione della moneta unica.



Cosa poi ci abbiano fatto lo stato italiano o gli altri paesi mediterranei con questo risparmio, non dipende certo dall'UE o dall'Euro, ma semmai dai nostri governi.
E' anche vero che un debitore in euro non può sperare che parte del suo debito scompaia attraverso l'inflazione, quindi deve essere attento quando chiede un prestito. Lo Stato dal canto suo deve essere efficiente nelle sue spese, perché poi il debito, che è facile contrarre, sarà più difficile da ridurre. Se poi uno stato (o un privato) dilapida il vantaggio di usare una moneta forte, e spende male i propri soldi, si condanna al disastro. Una moneta forte, come tutti gli strumenti, bisogna saperla usare con intelligenza, ma di per sé non è certo un male.
Comunque, chi sostiene che ogni area economica dalle caratteristiche omogenee dovrebbe avere la propria moneta, dovrebbe chiedere una moneta per il sud Italia e una per il nord, una moneta per la Cornovaglia e una per l'area di Londra, una moneta per la Jacutia e una per l'area di Mosca, una moneta per la California e una per l'Alabama ecc. Caso strano negli altri paesi nessuno sostiene una follia del genere. E i no euro si dicono nostalgici della lira, che era una moneta comune tra due aree fortemente diverse, con il nord molto più produttivo del sud. Ogni tanto un po' di coerenza non guasterebbe.

- La crisi è nata dai debiti privati contratti dai paesi periferici dell'area euro (Piigs) nei confronti di quelli nordici. I debiti pubblici non c'entrano nulla, il vero problema è il debito estero.
Sicuramente la crisi non è stata provocata dai debiti pubblici, ma per la verità neanche dai debiti esteri, dato che è nata nel 2008 negli Stati Uniti, in seguito ad una bolla immobiliare, quella dei mutui subprime (anche se secondo alcuni questa bolla può essere stata favorita dal grosso deficit con l'estero che avevano gli Stati Uniti nei confronti di paesi come Cina e Giappone). In ogni caso, l'Euro non c'entra nulla. I primi anni 2000 furono comunque un periodo di bassi tassi di interesse, che favorirono un eccesso di indebitamento e la creazione di bolle in vari paesi, anche al di fuori dell'Euro (basti pensare a Islanda e Gran Bretagna). L'euro, eliminando il rischio di cambio, ha forse favorito la creazione di bolle in alcuni paesi, in particolare Spagna e Irlanda, finanziate da banche di paesi come Francia e Germania. L'Italia, comunque, ne è rimasta fuori, dato che negli anni prima della crisi non ha conosciuto alcun boom economico trainato da bolle (il Pil era sostanzialmente piatto, negli anni di Berlusconi e Prodi). La Grecia invece ha avuto principalmente un problema di debito pubblico (l'esplosione della spesa pubblica avvenuta truccando i conti, che in parte ha anche favorito l'indebitamento privato e con l'estero). Quindi tecnicamente l'Italia non è un Piigs, i Pigs sono quattro e con una sola i, e comunque i Pigs non sono tutti uguali. In ogni caso, ormai tutto ciò è accaduto. Sostenere che l'Italia oggi debba uscire dall'euro perché dieci anni fa alcuni paesi hanno avuto delle bolle trainate dal credito facile, non ha molto senso. Piuttosto, è bene evitare che gli errori del passato non si ripetano. E per fare questo occorre che vi siano maggiori controlli sulle banche (l'unione bancaria che l'Europa sta lentamente avviando va in questa direzione), e naturalmente evitare che gli stati diano garanzie implicite alle banche di salvarle con soldi pubblici qualora qualcosa andasse storto (la regola del bail in a partire dal gennaio 2016 serve a questo). Insomma, non è "obbligatorio" che all'interno dell'area Euro si creino bolle o squilibri nei conti tra i paesi; chi sostiene questo cerca di dimostrare che vi sia un qualche meccanismo inesorabile per portare acqua al proprio mulino e convincere l'opinione pubblica che l'unica soluzione sia uscire dall'Euro. Ma questo è assurdo, d'altro canto nessuno negli Stati Uniti ha (giustamente) pensato che la crisi dei mutui sub-prime sia dovuta al dollaro. Come al solito, la moneta non c'entra nulla nei problemi o gli squilibri della finanza o dell'economia reale.

- Non potendo svalutare, l'Italia e i paesi mediterranei sono condannati ad accumulare deficit con l'estero e a ridurre le proprie esportazioni.
Oggi l'Italia con l'euro sta vivendo un periodo di esportazioni record, quindi non è certo questo il problema dell'Italia.
Ecco ad esempio la bilancia commerciale dell'Italia: attualmente il surplus con l'estero ha superato anche il periodo post-svalutazione del 1995.



Anche gli altri paesi periferici comunque negli ultimi anni hanno praticamente azzerato il deficit con la Germania e gli altri paesi nordici, segno che l'Euro di per sé non costringe nessuno a indebitarsi. D'altro canto, perché ci sia un debito, ci deve essere un credito, quindi se un paese non trova nessuno disposto a prestargli denaro, non potrà certo accumulare debiti con l'estero.
Inoltre, come accade all'interno dei singoli paesi, nelle aree economicamente più arretrate e che tendono a importare più di quanto esportano, la fuoriuscita di capitali comporta una diminuzione dei prezzi (in Calabria i prezzi sono più bassi che in Lombardia): quindi, in mancanza di una svalutazione, e di un finanziamento dall'estero, gli squilibri nei conti con l'estero tendono ad aggiustarsi anche in presenza di una moneta comune (a meno che non ci siano dei continui trasferimenti a fondo perduto, come accade in Italia dal nord al sud, che consentono almeno in parte al sud di spendere più di quanto produce: che sia questo il sogno dei no euro, essere mantenuti dai trasferimenti tedeschi come i Calabresi sono mantenuti dai Lombardi? In effetti spesso i no euro dicono proprio questo: ci vorrebbero i trasferimenti, ma se la Germania non ce li dà, dobbiamo uscire dall'Euro).
Prima della crisi del 2008 i paesi periferici (non però l'Italia) come Spagna e Grecia accumulavano debiti perché trovavano qualcuno, in particolare le banche tedesche e francesi, disposto a finanziarli. E questo perché le autorità europee avevano fatto credere che vi fosse una garanzia da parte della Germania sui debiti bancari e sovrani dei paesi periferici. Chiarito l'equivoco (la crisi della Grecia ha comportato un taglio parziale del debito pubblico, con conseguente perdita delle banche creditrici francesi e tedesche), dal 2010 il rischio di ogni paese ha cominciato ad essere prezzato in maniera indipendente, gli spread si sono differenziati, e nessuno osa più prestare ai paesi che non considera affidabili.

-Negli anni '80 l'Italia era una potenza mondiale che spaventava il mondo con le sue aziende iper-competitive, mentre ora con l'euro è in crisi e non ne esce più.
Negli anni '80 l'Italia aveva già più o meno gli stessi problemi strutturali di oggi (uno stato inefficiente, un basso livello di produttività ecc.), e vi ovviava con politiche che potevano funzionare solo nel breve periodo (svalutazioni, deficit pubblici elevatissimi che raddoppiarono il debito pubblico in dieci anni). Nel 1992 con un debito ormai fuori controllo l'Italia rischiò la bancarotta, e molti economisti sostengono che è stato proprio l'ingresso nell'euro deciso in quegli anni a salvare lo stato dal default, per merito della riduzione dei tassi di interesse e della maggiore credibilità ricevuta dal fatto di convertire i debiti in una nuova moneta in comune con paesi fiscalmente responsabili, che ha consentito ai mercati di fidarsi ancora del debito italiano. Da allora però lo stato non è stato riformato, la spesa pubblica ha continuato a crescere, inseguita dalla pressione fiscale che è diventata insostenibile per le imprese e dunque l'Italia ha smesso di crescere.



E' evidente che né il sistema attuale (spesa pubblica alta e inefficiente ma conti pubblici tenuti sotto controllo con tasse elevatissime) né quello degli anni '80 (elargizioni pubbliche che drogavano la crescita aumentando il debito) siano modelli da seguire, ma provare nostalgia per quel periodo in cui si sono poste le condizioni per la stagnazione attuale, con la creazione di uno dei debiti pubblici più alti al mondo, è decisamente assurdo.
In ogni caso dagli anni '80 sono passati 30 anni e nel frattempo sono accadute molte cose, a cominciare dalla globalizzazione che ha visto entrare nel commercio internazionale paesi enormi come la Cina, e dalla rivoluzione informatica. Pensare che il mondo ci aspetti e che si possa tornare ai bei tempi andati, competendo nei mercati globali con le nostre piccole aziende a conduzione familiare, è quanto meno irrealistico.

- L'Italia dovrebbe uscire dall'Euro per poter svalutare, in modo da recuperare competitività e aumentare le esportazioni.
La svalutazione consente di recuperare competitività sul breve periodo, ma non sul lungo, tanto è vero che i paesi che hanno adottato questa strategia, tra cui la stessa Italia negli anni '70 e '80, dopo un po' dovevano svalutare di nuovo, senza per questo riuscire a crescere più dei paesi che non svalutavano.
Come si può vedere nel seguente grafico, l'Italia tendeva ad essere in deficit con l'estero anche quando svalutava. Le svalutazioni consentivano di recuperare competitività per un periodo limitato, dopodiché, non essendo stati fatti interventi strutturali, la situazione tornava ad essere quella di prima.

Da http://it.tradingeconomics.com/

In quel periodo la lira italiana si svalutò moltissimo sul marco tedesco, come si può vedere nell'immagine seguente.



Eppure l'Italia non riusciva a crescere più della Germania, che recuperava la competitività perduta con la moneta forte attraverso investimenti e ristrutturazioni industriali che la rendevano più produttiva, e anche i salari erano a vantaggio della stessa Germania (cosa del resto ovvia perché i salari in ultima analisi sono legati alla produttività). In genere i paesi esportatori hanno una moneta forte che si rivaluta (altro esempio, il Giappone nel periodo d'oro, vale a dire fino agli anni '80), e nonostante questo continuano ad esportare parecchio, mentre i paesi che tendono a svalutare (altro esempio oltre all'Italia, la Grecia negli anni '80), tendono ad essere importatori netti.
Ecco ad esempio il conto delle partite correnti della Turchia, paese che secondo i no-euro sarebbe fortunato in quanto dotato di moneta sovrana e in grado di svalutare. Ebbene, la Turchia è in forte deficit con l'estero: ennesima prova che la moneta sovrana e la svalutazione non bastano a ridurre gli squilibri, se non si agisce sulle loro cause reali.

La svalutazione dà ottimi risultati, consentendo di eliminare gli squilibri, come dimostra l'Italia che nel 1992 svalutò ottenendo un boom delle esportazioni

La svalutazione non è una passeggiata, tanto è vero che svalutano solo i paesi in crisi, lo fanno a malincuore (anche la Banca d'Italia quando svalutava la lira lo faceva solo dopo aver cercato a tutti i costi di sostenere il cambio), e comunque non sempre questo comporta risultati positivi. Ad esempio negli ultimi tempi hanno svalutato paesi come la Russia, il Brasile, l'Argentina e il Giappone, e non hanno ottenuto risultati, neanche nelle esportazioni. In Russia dopo la svalutazione l'inflazione è salita al 16%.



In Argentina (dove si stampa anche moneta per finanziare una parte della spesa pubblica, altra cosa che vorrebbero fare i no euro) l'inflazione è ancora più alta (tanto che la presidenta Kirchner ha avuto l'idea di requisire l'istituto di statistica e di truccare i dati). Comunque la svalutazione dell'Italia nel 1992 comportò un aumento della disoccupazione, una diminuzione del salari reali (il salario nominale fu bloccato per la concertazione, e l'inflazione che rimase intorno al 5% l'anno comunque rosicchiò gli stipendi per qualche anno), e un notevole aumento delle esportazioni dopo due-tre anni.
Che la svalutazione sia spesso collegata ad un aumento della disoccupazione, lo si può vedere nel seguente grafico.

Insomma, pro e contro come sempre, senza miracoli. Di fatto la svalutazione è un sussidio occulto alle imprese che esportano, ottenuto attraverso una riduzione del salario reale. Se è questo che si vuole ottenere, lo si può fare senza uscire dall'euro e svalutare (ad esempio, aumentando l'Iva, che colpisce i consumi in maniera indiscriminata più o meno come l'inflazione, e nel contempo riducendo il costo del lavoro per le imprese, consentendo loro di essere più competitive sui mercati esteri).

-Uscire dall'euro non provocherebbe alcun problema che non sia facilmente risolvibile, non vi sarebbe né corsa agli sportelli, né fuga di capitali.
Come si è visto nel caso della Grecia, che nel 2015 con il primo governo Tsipras si stava avviando verso l'uscita dall'euro, queste sono proprio le cose che succedono, quando si pensa che un paese possa uscire dall'euro, o anche dall'aggancio con una moneta più forte (come accadde in Argentina nel 2001, quando a un certo punto le banche furono chiuse e la gente rimase fuori a protestare, mentre i loro risparmi venivano falciati dalla svalutazione).



D'altro canto, basta ragionare un secondo: se voi sapeste che i risparmi che avete in banca stanno per essere convertiti in lire e che la nuova lira si svaluterà parecchio, diciamo del 30% sull'euro o su altre monete come il dollaro, che fareste? Li lascereste tranquillamente in banca a svalutarsi, o correreste per recuperarli e nasconderli sotto il materasso o portarli all'estero prima che sia troppo tardi?
Ora, come si è visto in Grecia, ma anche in Argentina nel 2001, la corsa agli sportelli è il primo passo di una catena che alla fine porta al default dello stato e al crollo del Pil, attraverso il fallimento delle banche che rimangono senza liquidità e non possono fare più prestiti.

-Non potendo svalutare la moneta, l'euro costringe i paesi deboli a svalutare il salario, infatti è la moneta voluta dai capitalisti per impoverire i lavoratori; bisogna dunque tornare alla sovranità monetaria per difendere i salari.
Poiché in ultima analisi il salario è legato alla produttività, non stupisce che i paesi dall'economia debole, cioè poco produttivi, abbiano anche salari più bassi. Chi produce poco, non può che pagare poco i propri lavoratori (questo vale anche per una singola azienda: immaginate di avere due dipendenti e un utile di 24.000 euro l'anno: anche se voi non mangiate e usate tutto l'utile per gli stipendi, non potrete dare più di 1.000 euro al mese a dipendente).
Non a caso l'Italia aveva i salari più bassi d'Europa anche quando aveva la lira. E ancora oggi i paesi, anche con moneta sovrana, che producono ancora meno (ad esempio la Bulgaria o la Tunisia), hanno salari ancora più bassi.
In ogni caso, la svalutazione è esattamente equivalente ad una riduzione diretta dei salari. Solo che nel primo caso, quello della svalutazione, la riduzione avviene in maniera subdola, attraverso l'aumento dei prezzi dei beni importati (e anche di quelli prodotti all'interno, come conseguenza dell'aumento del prezzo del petrolio, che influisce sul trasporto delle merci prodotte in casa).
La svalutazione competitiva è una specie di droga che consente alle aziende poco competitive di rimanere a galla grazie alla diminuzione dei prezzi, quindi a lungo andare rende il Paese che attua questa strategia poco produttivo, e quindi dotato di salari bassi.
Rimane il fatto che quando un paese va in crisi, la diminuzione dei salari è un fenomeno fisiologico, basti pensare ai nuovi contratti delle case automobilistiche americane, che dopo il 2008 dimezzarono addirittura il salario orario rispetto ai vecchi contratti.
Al di là dei periodi di crisi, l'unico modo che un paese ha di aumentare i salari consiste nell'aumentare la produttività, come dimostrano i paesi più produttivi, come Giappone e Germania, che guarda caso hanno sempre avuto monete forti, che non si svalutavano, e salari molto alti. Chi invece vuole svalutare, vuole recuperare competitività attraverso la riduzione dei salari reali. Chi ci tiene al livello dei salari, dovrebbe preoccuparsi per la produttività, anziché chiedere di ridurre il potere d'acquisto dei salari attraverso la svalutazione.
Il vero problema dell'Italia è quello della produttività, che sostanzialmente è piatta da molti anni.

(da LaVoce.info)
- I paesi periferici e dall'economia più debole sono condannati a subire un differenziale di inflazione rispetto ai paesi forti come la Germania, e questo differenziale di inflazione li rende gradualmente meno competitivi, e l'unico modo per riequilibrare i conti è svalutare.
In realtà nessun paese è "costretto" ad avere un'inflazione più alta di un altro. Se poi un paese si ritrova ad avere un'inflazione più alta della Germania senza avere una crescita della produttività adeguata (altrimenti non sarebbe più debole e non perderebbe competitività), vuol dire che sta sbagliando qualcosa, tipicamente aumentando i salari più della produttività. Ma questo è un errore, a meno che non lo facciano anche gli altri paesi, che prima o poi si paga, e si dovrà riequilibrare o con una svalutazione, o con una deflazione interna, cioè in qualche modo si dovranno riabbassare quei salari che erano aumentati troppo (come abbiamo detto, anche la svalutazione corrisponde ad una diminuzione dei salari reali). Ecco ad esempio cosa è accaduto ai salari reali negli anni precedenti la crisi. Come si vede, la Spagna e la Grecia li hanno aumentato in maniera spropositata rispetto agli altri paesi dell'area Euro, e non a caso sono i paesi andati maggiormente in crisi.


Se un paese tiene a posto i conti pubblici e non aumenta i salari più della produttività, può stare benissimo nell'Euro anche se nel complesso è meno produttivo della Germania o dei paesi nordici. Certo, si dovrà accontentare di salari e stipendi più bassi, ma questo come abbiamo visto accadrebbe anche al di fuori dell'Euro e accadeva anche prima dell'Euro, quando i paesi nordici erano più ricchi di quelli mediterranei.

La Germania ha guadagnato competitività rispetto agli altri paesi europei abbassando i salari, facendo dunque concorrenza sleale.
Nel 2003 la Germania era considerata il malato d'Europa, e aveva una disoccupazione più alta di quella dei paesi mediterranei. Con le riforme Harz si cercò di rendere il sistema più competitivo, e tra le altre cose si bloccarono i salari (che comunque erano molto più alti di quelli italiani e più alti della media europea) per qualche anno, senza che comunque scendessero sotto il livello di quelli dei paesi mediterranei. Basta confrontare gli stipendi tedeschi con quelli di altri paesi europei, per rendersi conto di come i primi non siano affatto più bassi, anzi.



In seguito, con la ripresa dell'economia, i salari tedeschi hanno ripreso a crescere, e dopo la crisi la Germania è uno dei pochi paesi che ha visto i salari aumentare. Dunque, non c'è stato nessun dumping salariale, ma soltanto un aggiustamento rispetto al livello, evidentemente troppo elevato, che avevano in precedenza (se la disoccupazione è alta vuol che i salari sono troppo alti per la situazione generale di un dato periodo).
D'altro canto basta guardare i dati su un periodo più lungo rispetto agli anni successivi al 2003, per capire come in Germania in costo del lavoro tenda ad aumentare.


In ogni caso è curioso che questo rilievo venga fatto dai no-euro alla Germania, e non ad esempio alla Cina, che ha basato il suo sviluppo proprio sui salari, quelli sì, veramente molto più bassi di quelli di tutti i paesi europei, ed ha massacrato migliaia di aziende italiane con la concorrenza basata sul prezzo. Invece la Germania ha sempre basato le sue esportazioni sulla qualità più che sul prezzo.

- Il divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro del 1981 è la causa principale dell'esplosione del debito pubblico italiano, dato che fece aumentare i tassi di interesse.
Dato che i tassi di interesse incorporano il rischio-paese, il rischio che svaluti, e l'inflazione, se un Paese ha governi deboli che cambiano quasi ogni anno, inflazione più alta degli altri paesi, deficit (anche primario) più alto, e spesso svaluta, per forza avrà tassi di interesse più alti. Chi pensa che questo non conti, potrà comprare titoli di un paese con queste caratteristiche, e voglio vedere se accetterà di acquistarli a tassi di interesse bassi come quelli tedeschi. Poi magari l'anno dopo il paese svaluta e il nostro investitore si ritrova con i risparmi bruciati.
Comunque può essere interessante capire come si arrivò al cosiddetto divorzio.
Anche se per i no-euro furono meravigliosi, gli anni '70 furono anni molto duri dal punto di vista economico, non solo a causa delle crisi petrolifere, ma anche perché le banche centrali di molti paesi, essendo dipendenti dalla politica, tendevano ad aumentare l'offerta monetaria in concomitanza con le elezioni, generando inflazione. Per rispondere a questo fenomeno, diversi paesi attuarono delle misure, a cominciare dal presidente della Federal Reserve americana Paul Volcker, che operò una forte stretta monetaria a partire dal 1979. La stretta fu così forte da provocare un'impennata dei tassi di interesse e persino una breve recessione.


Solo che avendo gli Stati Uniti un debito e un deficit basso, l'effetto sul debito pubblico americano fu tutto sommato contenuto.
In quello stesso periodo l'Italia decise appunto di separare la Banca Centrale dal Ministero del Tesoro, in modo che la prima non fosse costretta a stampare moneta per finanziare una parte della spesa pubblica. Altri paesi hanno applicato il "divorzio" più tardi, la Svezia negli anni '90, senza osservare un aumento del debito pubblico (anzi la Svezia da quando ha attuato il divorzio ha dimezzato il debito pubblico, che è sceso da circa l'80% a circa il 40% in vent'anni). Quindi il divorzio non è in sé causa di un aumento dei tassi, anche se lo fu in Italia, perché i governi continuarono con la politica di deficit elevati e svalutazione. Quindi le politiche dissennate dei governi italiani, che prima si scaricavano sull'inflazione, cioè venivano pagate direttamente dai cittadini, a partire dal 1981 vennero scaricate sul debito pubblico, cioè sulle generazioni future. Se l'Italia avesse mantenuto basso il deficit pubblico, come fece ad esempio la Francia, il debito pubblico non sarebbe esploso (nel 1990 la Francia, che durante gli anni '80 si era auto-imposta la regola del 3% di deficit massimo, aveva un debito pubblico pari a circa il 40% del Pil, mentre l'Italia superava il 100%). Oggi l'indipendenza della Banca centrale dalla politica è un principio fondamentale di politica economica, applicato da tutti i paesi avanzati, e non a caso l'inflazione non costituisce più un problema, senza che per questo i debiti pubblici debbano per forza esplodere.

- L'Euro espone i paesi periferici come l'Italia a subire gli investimenti dall'estero, che rappresentano una sorta di colonizzazione. In pratica, stiamo svendendo i nostri gioielli agli stranieri.
Innanzi tutto gli investimenti dall'estero non sono di per sé un male, nella misura in cui consentono di creare (o mantenere) lavoro, innovazione, concorrenza. In ogni caso, l'Italia non riceve investimenti dall'estero superiori agli altri paesi. Anzi la Gran Bretagna, fuori dall'Euro, ne riceve molti di più.



- L'Euro costringe a fare austerità. Se fosse possibile fare più deficit, la crisi passerebbe facilmente e l'economia riprenderebbe a crescere.
In realtà non vi è affatto un legame sicuro tra crescita e deficit. Ad esempio il Giappone negli ultimi anni sta facendo deficit molto elevati, che stanno aumentando ulteriormente il già enorme debito pubblico, eppure la crescita rimane asfittica, tra le più basse dei paesi avanzati.


Eppure il Giappone dovrebbe essere un paradiso per i no-euro: ha moneta sovrana, ha svalutato, ha un deficit elevato, e la sua banca centrale sta acquistando titoli di stato ad un ritmo elevato. Ecco un paragone tra la crescita del Giappone e quella dell'Irlanda, che secondo i no-euro è un povero paese periferico dell'area Euro, privo di moneta sovrana e dunque destinato a diventare sempre più povero, triste e sofferente.



Strano, l'Irlanda cresce molto più del Giappone!
D'altro canto, dopo la crisi diversi paesi europei hanno fatto deficit importanti, senza per questo conoscere una crescita sostenuta. Ad esempio la Spagna, pur stando nell'Euro, ha fatto più o meno gli stessi deficit della Gran Bretagna. E la Francia, che ha dichiarato di non intendere rispettare il parametro del 3% per i prossimi anni, continua ad avere una crescita molto bassa. Quindi l'austerità dell'Euro è un po' un mito, in realtà i diversi paesi hanno fatto più o meno i deficit di cui avevano bisogno o di cui credevano di aver bisogno.
L'idea che il deficit faccia crescere l'economia è un errore storico, dovuto al fatto che nel dopoguerra, in presenza di una crescita robusta, quasi tutti i paesi avanzati facevano deficit anche relativamente elevati. Ma la causa della crescita non era certo il deficit! I paesi avanzati crescevano già parecchio per motivi strutturali (crescita della popolazione, progresso tecnologico) e quindi si potevano permettere anche di fare deficit senza che questo creasse particolari problemi all'economia.
I paesi del nord Europa, che hanno sperimentato una grave crisi negli anni '90, dovuta tra le altre cose ad un eccessivo aumento della spesa pubblica e quindi della pressione fiscale, hanno capito per primi quanto fosse importante ridurre il debito e cercare di crescere attraverso guadagni di produttività. Ad esempio la Svezia, fuori dall'Euro e quindi libera di fare i deficit che vuole, si è autoimposta una austerità ancora più drastica, che l'ha portata a dimezzare il debito pubblico in vent'anni. Come si può vedere dal seguente grafico, la Svezia è stata spesso in surplus negli anni 2000 (altro che deficit al 3%!), eppure non sono arrivate le cavallette, anzi è uno dei paesi più in salute d'Europa.


Paesi come la Svezia e la Germania dimostrano che si può crescere benissimo anche senza (o con poco) deficit.

- Uno stato a moneta sovrana non può fallire e non può finire sotto attacco speculativo, invece l'Euro è una moneta straniera che mette i paesi che ne fanno parte a rischio di fallimento.
In realtà la storia è piena di paesi a moneta sovrana che hanno fatto default, come si può vedere nella seguente tabella.


Alcuni di questi paesi avevano agganciato la propria moneta a monete straniere, altri no.
Notare come l'Argentina, che secondo i no-euro sarebbe fallita nel 2001 per colpa dell'aggancio al dollaro, era già fallita sei volte in precedenza, dal 1800.
D'altro canto, nel 1964 e nel 1976 la lira italiana, moneta sovrana e flessibile, finì sotto attacco. Mentre nel 1974 sempre la felice Italia sovrana e dal cambio flessibile, aveva chiesto un prestito al fondo monetario (si veda anche qui un resoconto delle volte in cui l'Italia ha dovuto chiedere prestiti all'estero).
Il concetto di "moneta sovrana" viene usato in maniera fuorviante: sembra che a controllare la moneta sia il popolo sovrano, mentre uno stato non a moneta sovrana come i paesi dell'Euro sia sottoposto ad una sorta di dittatura. In realtà, i meccanismi di base che regolano l'emissione e il controllo della moneta nei paesi dell'area Euro e nei paesi a moneta sovrana sono sostanzialmente gli stessi: c'è una banca centrale indipendente, che regola l'emissione di moneta, vigila sulle banche private ecc., e questo accade in Europa (con la Bce), in Gran Bretagna (con la Banca d'Inghilterra), negli Stati Uniti (con la Fed) ecc.

CONCLUSIONE

Con questa analisi non intendo sostenere che l'Euro sia una buona idea, o che sia stato costruito bene, o che non abbia difetti, ma semplicemente che le tesi dei no-euro sono inconsistenti, che con ogni evidenza l'Euro non è la causa dei problemi dell'Italia, e che dunque uscire non risolverebbe i problemi, ma ne creerebbe di ulteriori.





mercoledì 14 ottobre 2015

Renzi, Mr. Deficit e il declino dell'Italia

Le recenti promesse di Renzi di abolire la tassa sulla prima casa, e di operare nei prossimi anni delle riduzioni più consistenti delle imposte sui redditi, assomigliano molto alle promesse che faceva Berlusconi. Innanzi tutto, il primo provvedimento è quello meno costoso, mentre le riduzioni più sostanziose vengono rinviate ai prossimi anni, il ché fa dubitare che la promessa possa essere mantenuta. E, cosa ancora più grave, come faceva lo stesso Berlusconi, non si spiega in che modo si troveranno le coperture, ma si rimane sul vago o ci si affida alla speranza di una crescita futura del Pil. Nel frattempo, l'unica misura che veramente si dovrebbe fare se si vogliono ridurre le imposte, cioè la riduzione della spesa pubblica, non viene fatta. Già l'anno scorso, mettendo nel cassetto la spending review di Cottarelli, Renzi fece capire che non aveva veramente la voglia/la capacità di ridurre gli sprechi e di razionalizzare la spesa pubblica, che è una delle cause della scarsa crescita italiana, dato che per mantenerla si è arrivati ad una pressione fiscale insostenibile, da paese scandinavo, ma senza avere in cambio i servizi dei paesi scandinavi.



Una pressione fiscale che secondo i dati dello stesso governo non è diminuita negli ultimi due anni, contrariamente a quanto va dicendo Renzi (gli 80 euro, "abbiamo abbassato le tasse" ecc).
Anche quest'anno poi è chiaro che Renzi non intende fare una vera spending review, che nel frattempo è stata affidata a Gutgeld e dovrebbe valere pochi miliardi, che non intende aggredire gli sprechi delle migliaia di società partecipate, a cominciare dalle romane Atac e Ama, che hanno debiti per centinaia di milioni e sono piene di dirigenti strapagati e dipendenti che non hanno nulla da fare.
Ora però Renzi sostiene che l'Italia "è ripartita", e che sta tornando "protagonista in Europa". I dati però raccontano un'altra storia. Sia quest'anno che l'anno prossimo il Pil italiano crescerà poco, e comunque meno della media europea, esattamente come fa da vent'anni a questa parte. Quindi c'è una ripresa, ma solo perché c'è in tutta Europa, non c'è nessuna virtù particolare dell'Italia. L'Italia continua a perdere punti di Pil rispetto agli altri paesi europei, cioè continua a declinare.
Ora però Renzi si è inventato la possibilità di fare più deficit rispetto a quanto concordato con l'Europa negli anni precedenti, e si è auto-attribuito il diritto di usufruire della fantomatica "flessibilità", che l'Europa concederebbe (?) in cambio di riforme (quali?). Ora, dato che il deficit è esattamente quello che l'Italia ha fatto dal 1965 al 1995, ottenendo come risultato un debito pubblico mostruoso, non si capisce perché questa volta dovrebbe essere diverso, cioè non dovrebbe semplicemente aumentare il debito, che si tradurrà in nuove tasse nei prossimi anni. Sempre che l'Europa approvi la manovra, ma rimane il fatto che la scelta di fare deficit è la prova che anche Renzi non è in grado di risanare l'Italia. Il deficit è una prova di disperazione, è l'arma di chi non riesce a rendere più efficiente la macchina dello stato, ma ha bisogno di ottenere (leggi: comprare) consenso attraverso la distribuzione di benefici agli elettori (o ad alcuni di essi).
Tra l'altro l'abolizione della tassa sulla prima casa per tutti è una misura regressiva, che favorisce i ricchi e i benestanti, oltre che gli anziani e i maturi (che in genere sono i proprietari delle case) rispetto ai giovani. E questo è già un paese per vecchi, quello con la spesa pensionistica più alta.
Poi ci si stupisce che il Pil non cresce, che la disoccupazione giovanile è tra le più alte d'Europa, e che i giovani (quelli non raccomandati e figli di papà) continuano ad andare via dall'Italia.
Dunque, a dispetto dell'immaginifica narrativa renziana, il declino dell'Italia continua. Peccato, si tratta dell'ennesima occasione persa. O forse dell'ultima.