giovedì 8 dicembre 2011

La crisi e il debito estero


Negli ultimi temi, negli ambienti della sinistra antagonista, si sta diffondendo la richiesta di uscire dall'Euro, per poter svalutare la moneta in modo da recuperare competitività nei mercati internazionali, senza dover chiedere sacrifici al lavoro dipendente e alle pensioni.
Secondo questa visione, l'attuale crisi dei debiti sovrani non è causata affatto dall'elevato debito pubblico dei Paesi cosiddetti Pigs (o Piigs se si vuole includere anche l'Italia), ma dai debiti esteri che questi Paesi hanno accumulato in seguito all'introduzione dell'Euro.
In pratica, una volta costituito l'Euro, i Paesi con una produttività e una competitività inferiore, come Irlanda, Grecia, Spagna e Portogallo, ma anche l'Italia, sarebbero stati "costretti" ad importare merci dai Paesi più produttivi, a cominciare dalla Germania; questo squilibrio avrebbe costretto poi gli stessi Paesi ad indebitarsi con le banche estere, e una volta scatenatasi la crisi finanziaria del 2008, i creditori esteri avrebbero cominciato a fare pressione su Paesi deboli perché mettessero i conti a posto, costringendoli a ridurre stipendi pubblici e pensioni, e impoverendo così la popolazione.
Non manca in questa ricostruzione un atteggiamento sospettoso e un po' complottistico nei confronti della Germania, che avrebbe voluto l'unione monetaria proprio per trasformare i Paesi periferici in mercati da invadere con le proprie merci, per poi strozzarli con vincoli di bilancio stringenti, mentre i Paesi periferici sarebbero delle vittime sacrificali, cadute inconsapevolmente nella trappola dei perfidi teutonici.

Cosa si può dire di questa ricostruzione?

In primo luogo, l'Euro non è stato voluto dalla Germania, ma dalla Francia, per compensare la sua ritrovata potenza dopo l'unificazione. In cambio della riunificazione, che ne faceva il Paese economicamente più potente d'Europa, la Germania ha dovuto rinunciare alla sua moneta, tradizionalmente stabile e segno di forza e affidabilità economica, e trasferirne le virtù all'intero continente. La creazione dell'Euro è stata in ultima analisi vista come un punto di forza dai diversi Paesi che vi hanno aderito, per poter contrastare meglio le potenze emergenti, dotate di popolazioni ben superiori a quelle dei singoli Paesi europei, e dunque in grado di divenire mercati potenzialmente troppo grandi per competere con essi senza essere uniti. La Germania ha però chiesto garanzie per poter far sì che la nuova moneta mantenesse le caratteristiche di stabilità che erano tipiche del Marco, ed è nato così il Trattato di Maastricht.
Inoltre, l'impoverimento della popolazione non ha colpito solo i Paesi dell'area Euro, dal momento che l'impoverimento è una realtà anche in Paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna. L'impoverimento è a mio avviso la conseguenza della globalizzazione che ha spostato una parte della ricchezza verso la Cina e i Paesi emergenti. Sostenere che la causa dell'impoverimento sia l'Euro, è assurdo.
Inoltre, il debito pubblico non è, come vorrebbe una certa sinistra, una grandezza che può crescere all'infinito senza creare problemi. Secondo la loro visione, il debito pubblico, finché lo Stato "chiede" soldi in prestito ai suoi stessi cittadini, non comporta problemi. Peccato che lo Stato non può pretendere che i cittadini gli diano i soldi, a differenza di quanto fa con le tasse, quindi non può aumentare la spesa all'infinito e pretendere di essere finanziato dai suoi cittadini. Se il debito sale troppo, una parte di questo potrebbe finire in mani estere, come accade anche a Paesi che non hanno l'Euro e non sono Pigs, ad esempio gli Stati Uniti (sì, lo so, gli Stati Uniti hanno il dollaro che funge da moneta di riserva, per cui inondano il mondo di dollari, come non potrebbero fare gli altri Paesi con la loro moneta). Inoltre il Trattato di Maastricht (che secondo questa visione critica è assurdo perché comporta vincoli sul bilancio pubblico, che invece dovrebbe poter crescere all'infinito) già prevedeva di tenere in ordine i conti pubblici, in altre parole, non si possono scusare i Paesi che non hanno saputo contenere la spesa pubblica, se non l'hanno fatto pur avendo avuto una quindicina d'anni di tempo per adattarsi alle nuove regole. Nei Paesi deboli infatti, la spesa pubblica improduttiva finisce per alimentare i consumi privati, che non essendo sostenuti da una produttività sufficiente, finiscono appunto per indebitare il Paese anche verso l'estero.
D'altro canto l'erroe di questa tesi è che dà per scontato che i Paesi deboli non siano capaci di aumentare la propria competitività attraverso riforme che rendano più facili le esportazioni, come una diminuzione del costo del lavoro, un aumento della tassa sui consumi, una diminuzione della spesa pubblica improduttiva, una riduzione dell'evasione fiscale ecc.
Anche per questo un debito pubblico troppo alto indica che qualcosa non va: se i Paesi in grado di assicurare uno stato sociale efficiente, come quelli nordici, hanno un debito pubblico contenuto, perché Paesi come l'Italia e la Grecia dovrebbero averlo al di sopra del 100% del Pil? Per pagare le pensioni baby?
E quelli che citano il Giappone come esempio di virtù (ha un debito pubblico al 230% del Pil, quindi per qualcuno è un esempio da seguire!), dimenticano che il Giappone è un Paese gerontocratico come l'Italia, con una mafia e una scarsa meritocrazia, come l'Italia. E allora perché il Giappone si può permettere un debito pubblico così elevato? Perché è un Paese che produce ed esporta, quindi ha in cassa enormi riserve in dollari. Se un Paese come la Grecia pretende di indebitarsi senza produrre, prima o poi fa il botto, Euro o non Euro. Purtroppo qualcuno racconta che i salari e le pensioni possano essere indipendenti dalla produttività di un Paese, salvo poi deludere chi eventualmente lo ascolta, quando, diononvoglia, le sue ricette vengono realizzate.
Inoltre si dà per scontato che l'uscita dall'Euro, con il conseguente default e la svalutazione, risolverebbero tutti i nostri problemi, proiettandoci verso un futuro radioso, come quello dell'Argentina. Argentina che attualmente nella classifica del reddito pro capite è 51a al mondo mentre l'Italia è al 29° posto, e il reddito medio argentino è la metà di quello italiano. Ma non importa, l'Argentina che a causa di una classe politica più demagogica e incompetente della nostra non è in grado di far sviluppare quel Paese come pure le risorse naturali consentirebbero, è diventato un modello da quando è andata al default, lasciando sul latrico migliaia di famiglie.
I sostenitori della svalutazione competitiva dovrebbero ricordare che essa è un modo per non risolvere i problemi, nascondendoli la polvere sotto il tappeto, e infatti la svalutazione competitiva risolve i problemi soltanto temporaneamente, perché dopo qualche anno si scopre che l'inflazione si sta mangiando i salari, che il Paese ha ricominciato a importare più di quanto esporta, e dunque è necessario svalutare di nuovo. Infatti la svalutazione competitiva sembra funzionare solo quando è sostenuta da un deficit pubblico eccessivo che nel breve termine nasconde i problemi (perché lo Stato regala soldi pubblici in modo da nascondere i problemi strutturali ed evitare conflitti sociali). Così ha fatto l'Italia fino al 1992, e infatti, caso strano, una volta accumulato troppo debito, nel 1992 ha rischiato la bancarotta. E da quel momento, con il debito pubblico ormai arrivato al 125% del Pil, ha dovuto ridurre la spesa pubblica, e così i problemi strutturali del Paese sono pian piano venuti fuori tutti.
Detto ciò, è vero che l'Unione europea ha bisogno di essere rivista per poter sopravvivere: in particolare ci dovrebbe essere una convergenza sui sistemi fiscali, non solo sui conti pubblici, e si dovrebbe prevedere qualche meccanismo che tenda a ridurre gli squlibri commerciali tra i diversi Paesi. Prima che competere tra loro, i Paesi dovrebbero convergere verso uno standard di competitività che renda il mercato interno omogeneo e uniforme. I Paesi che producono di meno devono poter ridurre il costo del lavoro, devono ricevere aiuti dall'Unione Europea per fare investimenti, e devono accontentarsi di avere salari più bassi finché non avranno recuperato il gap di competitività. D'altro canto, si è mai visto un Paese che produce poco e ha salari elevati? Non mi risulta che a Cuba i lavoratori vadano in giro in Mercedes...
Inoltre, occorre fare in modo che il trasferimento di capitali dai Paesi che in quanto esportatori dispongono di riserve (come la Germania) verso i Paesi periferici non comporti lo sviluppo di bolle, come è accaduto in Spagna e Irlanda, ma anche in Grecia, perché allo scoppio delle bolle i capitali si ritirano e i privati si ritrovano pieni di debiti, debiti che poi verranno presi in carico dallo Stato (infatti prima della crisi i conti pubblici di Spagna e Irlanda erano in ordine, quindi almeno nel loro caso, non è stata l'eccessiva spesa pubblica la causa della crisi in cui versano attualmente).
Ma sostenere che l'Italia e i Paesi più deboli devono uscire dall'Euro, dando per scontato che non siano capaci di fare le riforme e diventare più competitivi, e soprattutto dando per scontato che a lungo termine possano trovarsi in condizioni migliori da soli, piccoli Paesi in un mercato globalizzato, mi pare una tesi assurda. Purtroppo i sostenitori di queste tesi non sono a mio avviso particolarmente interessati all'effettiva soluzione migliore per i problemi italiani, perché in fondo, nella logica del tanto meglio tanto peggio, eventuali problemi economi e sociali che si potrebbero scatenare da una nostra uscita dell'Euro, potrebbero, nella loro ottica, fomentare la protesta sociale e quindi creare le condizioni per un più drastico cambiamento del sistema economico-sociale, cambiamento che loro evidentemente si augurano, magari traendo ispirazione da esempi (fallimentari) del passato.

martedì 29 novembre 2011

Krugman, l'Euro e i tecnocrati


Il premio Nobel per l'economia, Paul Krugman, da sempre critico nei confronti dell'Euro per il modo come è stato costruito (in particolare, per l'assenza di una politica economica a livello europeo), e critico anche con l'amministrazione Obama perché a suo dire non ha dato stimoli sufficienti all'economia per uscire dalla crisi, ha scritto di recente sul New York Times che la parola tecnocrate non va di per sé vista con disprezzo, ma non si adatta ai creatori dell'Euro: "le persone che hanno costretto l’Europa ad adottare una moneta comune, le persone che stanno costringendo sia l’Europa sia gli Stati Uniti all’austerità – non sono affatto tecnocrati. Sono, invece, dei romantici profondamente privi di senso pratico". Krugman ricorda poi che alla base della creazione dell'Euro vi è stato un antico sogno: "Perché allora questi “tecnocrati” hanno spinto così fortemente per l’euro, ignorando i molti avvertimenti degli economisti? In parte era il sogno di unificazione europea, che l’élite del continente trovava talmente allettante che i suoi esponenti scartavano via le obiezioni pratiche".
Trovo interessante questa analisi di Krugman, perché, nonostante sia spietata riguardo al modo con cui è stato costruito l'Euro e al modo con cui è stata gestita fino a questo momento la crisi, ci permette di ricordare, nonostante le tante voci che si moltiplicano nel web, volte a sostenere che tutte le scelte di politica economica si basano sui biechi interessi di poteri forti e occulti, ci ricorda che uno dei motivi principali per cui si è proceduto con l'unificazione europea, è stato un motivo ideale, il sogno di unire popoli e nazioni che per secoli hanno convissuto con difficoltà, spesso ricorrendo a guerre più o meno lunghe e devastanti, fino alla doppia tragedia delle due guerre mondiali.
E dopo la guerra, è stata la Guerra Fredda a costringere l'Europa a rimanere divisa e sottomessa alle due superpotenze di allora. L'Europa potenza inconsapevole, magari si potesse riunire, potrebbe dire la sua a livello mondiale, questo si pensava allora e questo poteva essere magari soltanto un sogno, ma dopo la caduta del Muro di Berlino, con la globalizzazione e la crescita di potenze emergenti come Cina e India, al sogno si è aggiunta la necessità si costituire una massa critica per evitare di essere ridotti a non contare nulla nello scacchiere mondiale.
Anche per questo è ridicolo proporre oggi per l'Italia vecchie ricette come quella della "svalutazione competitiva", quando ci sono Paesi che comunque hanno salari molto più bassi e già competono utilizzando vie poco virtuose.
Dunque l'Europa sarà stata anche costruita male, ma è ridicolo considerarla soltanto come il prodotto di biechi interessi di parte.
La politica, almeno se la si intende nel senso più alto, si nutre legittimamente di interessi, ma anche di valori. Ringraziamo Krugman per avercelo ricordato.

martedì 15 novembre 2011

Povero Monti


C'era da aspettarselo. L'arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi ha scatenato sul web i complottisti, quelli che attribuiscono semplicisticamente tutti i problemi del mondo ad un complotto pluto-giudaico-massonico, che vedrebbe nelle banche, e in particolare in Goldman Sachs, il centro e la fonte di tutti i mali.
E dunque già è grande la nostalgia del bellissimo governo Bossi-Berlusconi-Scilipoti, che sarebbe stato detronizzato dalla BCE e dalla cattiveria dei mercati famelici, che vorrebbero mettere le mani sull'Italia per affamare il popolo e conquistare le sue ricchezze.
Prima di capire quanto ci sia di vero, sarebbe bene ricordare cosa è accaduto nei mesi scorsi per comprende come siamo arrivati in questa situazione.
Cosa è accaduto nei mesi scorsi? E' accaduto che il governo ha ignorato il fatto che l'Italia fa parte dell'Unione Europea, che si trova in una economia di mercato globalizzata, e che aveva bisogno di riconquistare la fiducia nei mercati, che stavano cominciando a mettere in dubbio la capacità dello Stato italiano di ripagare il debito contratto nei confronti degli investitori, dal momento che il Paese non cresce da dieci anni, caso unico in Europa. Dunque, lo Stato, che nessuno costringe a indebitarsi e a chiedere i prestiti ai famosi "mercati", cioè agli investitori, lo Stato, dicevo, doveva recuperare la credibilità perduta operando riforme strutturali che dimostrassero che il debito pubblico è sotto controllo e che la crescita della spesa pubblica è stata arrestata, e che finalmente il Paese eliminerà gli ostacoli alla crescita economica, ostacoli che si chiamano burocrazia, pressione fiscale troppo elevata, costi della politica troppo elevati, mercato del lavoro e delle professioni ingessato ecc. Questo ci ha chiesto l'Unione Europea, ma noi, caso unico in Europa, abbiamo fatto orecchie da mercante, abbiamo traccheggiato, abbiamo perso tempo. In poche parole, abbiamo (o meglio il governo ha) lasciato che la situazione degenerasse nonostante i ripetuti richiami delle parti sociali e degli osservatori indipendenti.
Ora, sentire da parte degli stessi che hanno creato le condizioni per il disastro, che un governo guidato da un "tecnocrate" e un "banchiere" comporterebbe la perdita della "sovranità" è un po' inquietante. Chi parla di sovranità e di democrazia dovrebbe rendersi conto che nel 2011 non è consentito a nessuno di governare senza sapere nulla di economia. D'altro canto, nell'emergenza non ha senso lamentarsi perché è stato chiamato un esperto. Se mando a fuoco la mia casa, dopo devo almeno avere il buon senso di chiamare i pompieri e di lascarli fare, piuttosto che lamentarmi perché entrando in casa mia, possono violare la "sovranità" del mio domicilio.
Quanto ai sospetti e alle accuse a Monti di essere un "banchiere", un "uomo di Goldman Sachs", siamo al solito complottismo, intanto perché dal curriculum di Monti, che si può consultare ad esempio su Wikipedia, risulta che Monti è stato "advisor", e dunque consigliere della banca d'affari americana, che non è la stessa cosa che essere "banchiere", inoltre non mi pare che questa sia di per sé una prova che siamo di fronte al Maligno. Una persona si giudica per quello che dice e per quello che fa.
Certamente è facile accusare "le banche" di essere le cause della crisi, e dunque sostenere che non sono loro che ci devono dire cosa dobbiamo fare per uscirne. Ma il ragionamento è troppo semplicistico. L'Italia e la Grecia soffrono per un debito pubblico eccessivo, debito che è stato creato da una dissennata gestione politica che è durata per decenni, con il consenso della popolazione (consenso dovuto al fatto che la politica non solo sperperava, ma distribuiva anche regali e privilegi). Dunque, le banche non hanno nulla a che fare con la crisi dei debiti sovrani. O quantomeno, non sono state loro a scatenarla.
E' vero che le banche (o meglio, alcune grandi banche d'affari americane, anche qui non è il caso di generalizzare) hanno scatenato la crisi del 2008, per aver invaso il mercato di titoli derivati e per aver concesso mutui facili a categorie di clienti che non si potevano permettere di ripagarli. Ma questa non è certo l'unica causa della crisi: semmai la finanza creativa è riuscita a nascondere sotto il tappeto i problemi che l'Occidente già aveva e che prima o poi sarebbero esplosi: un aumento dei debiti pubblici e privati dovuti alla crescita del tenore di vita, che non era più in grado di proseguire ai ritmi a cui si era abituati, essendosi ormai esaurita la spinta propulsiva della crescita elevata.
E questa spinta propulsiva si è esaurita da un lato perché la popolazione è gradualmente invecchiata, dall'altro perché il consumismo ha spostato tutte le spese sui consumi riducendo gli investimenti in infrastrutture, e poi perché i Paesi emergenti hanno cominciato ad erodere la ricchezza occidentale, facendo concorrenza alle imprese e ai lavoratori occidentali.
Il gioco della globalizzazione è stato, fino a questo momento, a somma positiva: il numero dei poveri negli ultimi vent'anni è andato diminuendo, e centinaia di milioni di persone sono uscite dall'endemico stato di povertà da cui provenivano, in Asia e America Latina.
Ciò non toglie che l'Occidente, che mantiene comunque un tenore di vita elevato, ci abbia rimesso, e adesso deve ridimensionarsi.
Insomma, non sono le banche fameliche che vogliono fare "macelleria sociale". L'Occidente deve razionalizzare le sue spese perché è iperindebitato e perché non crescerà di molto per alcuni anni. D'altro canto, in un'economia globalizzata, bisogna essere efficienti. I capitali vengono investiti nei Paesi che offrondo infrastrutture migliori e poca burocrazia, una giustizia rapida ed efficiente, e una tassazione contenuta. E' inutile far finta di vivere sulla Luna, e lamentarsi di una situazione che comunque non è catasfrofica. Sempre che la si sappia gestire con intelligenza.
Quindi l'Italia invece di lamentarsi deve fare tesoro del fatto di essere stata "commissariata" dall'Unione Europea, e deve essere pronta a fare le riforme che comportino sacrifici ma anche la possibilità di avere un futuro. L'alternativa è il declino, o il fallimento.
A Monti è affidato un compito enorme: avviare il risanamento dell'Italia con il consenso di quella politica che fino ad ora ha lavorato nella direzione opposta, cioè lasciando che i problemi degenerassero senza fare nulla; Monti deve anche riuscire ad evitare di cadere nelle trappole che la politica potrebbe tendergli per i suoi interessi di parte, e per l'invidia nei confronti di un uomo che è stato chiamato a sostituirsi ad una "casta" di incapaci.

venerdì 11 novembre 2011

Irresponsabili


Dopo la (annunciata) caduta del governo Berlusconi, con l'Italia sotto attacco dalla speculazione ma non solo (gli investitori che hanno nel portafoglio i titoli di stato italiani, se ne liberano giustamente per paura che non sia in grado di onorare il debito), chi si rende conto della gravità della situazione sa che quella del governo tecnico è l'unica strada per evitare il default. Anche perché andare a votare subito vorrebbe dire tenersi l'attuale legge elettorale che non consente agli elettori di scegliere gli eletti, e vorrebbe dire non diminuire il numero dei Parlamentari e non ridurre i costi della politica.
Per questo motivo, è interessante vedere quali partiti si tirano fuori dalla responsabilità di salvare l'Italia e ripropongono il solito mantra: subito al voto. Naturalmente è per il "voto subito" la Lega, il partito campione della demagogia, capace di denunciare (e cavalcare) i problemi quando è all'opposizione, senza però risolverli quando è al governo. Si è subito schierato per il "voto subito" anche Di Pietro, anche lui tentato dalle sirene della demagogia e del populismo. Non rendendosi conto che l'epopa delle vacche grasse è finita, che una serie di riforme dolorose è necessaria perché il sistema non regge più, e lo Stato non può continuare ad indebitarsi, Di Pietro chiama "macelleria sociale" una proposta come l'innalzamento dell'età pensionabile. Siamo a questo. Per il momento il Pdl appare spaccato. Dopo aver creato le condizioni per il disastro insieme alla Lega, adesso molti esponenti del partito vorrebbero andare "subito al voto", anche perché non se la sentono di "governare con la sinistra". In fondo, li si può capire: dopo aver raccontato al popolo che la sinistra è il Male Assoluto, dopo aver semplificato il linguaggio con facili slogan che hanno avuto come unico effetto l'infantilizzazione dell'elettorato, adesso sarebbe in effetti un po' contraddittorio appoggiare un governo Monti per salvare l'Italia insieme alla sinistra. Quindi, meglio andare fino in fondo e continuare l'opera di portare l'Italia allo sfascio. Anche perché (altro argomento molto intelligente usato da esponenti del centro-destra), un governo appoggiato dalle attuali opposizioni sarebbe un "governo del ribaltone". Peccato che il ribaltone è un concetto di cui non c'è traccia nella Costituzione, dal momento che secondo la Costituzione il governo viene deciso dal Parlamento, e i parlamentari non hanno vincolo di mandato.
Visto che l'Italia rischia di fallire, e di trascinare con sé l'Euro e l'economia mondiale, chi vuole andare al voto subito non merita di essere mai più votato, né "subito" né più avanti.

giovedì 3 novembre 2011

I professorini


La puntata della trasmissione televisiva "In Onda" con ospiti esponenti del Movimento a 5 stelle ha consentito al grande pubblico di conoscere più da vicino questo movimento. E' stata una rara occasione perché gli stessi ospiti hanno detto che non si sprecano a venire in televisione, se non le rare volte che può servire per agganciare qualche spettatore, che poi dovrà informarsi ed eventualmente comunicare con loro in rete.
La scelta del mezzo di comunicazione è un'operazione curiosa da parte del Movimento a 5 stelle. Invece di utilizzare gli spazi dove è presente una qualche forma di dibattito pubblico, il Movimento decide quale va bene e quale no, rifiutando il dialogo nei terreni che per qualche motivo non reputa a lui congeniali. Sarebbe come se una squadra si presentasse alle Olimpiadi pretendendo di partecipare a sport che pratica solo lei, e di vincere la medaglia. Già questo è un atteggiamento snobistico che denota una scarsa democraticità. La televisione avrà tanti difetti, ma non andarci e in questo modo rifiutare di farsi conoscere e di confrontarsi non denota una reale volontà di confrontarsi. E questo non depone certo a loro favore.
Il Movimento a 5 stelle sfrutta il vantaggio competitivo che ha raggiunto sulla Rete perché è stato il primo ad usarlo in maniera massiccia; in questo modo può credere di essere maggioritario, secondo quello stesso delirio di onnipotenza che porta le minoranze organizzate a credersi maggioritarie nel Paese, solo perché hanno riempito una piazza.
E' invece evidente che, nell'eventualità remota che il programma di Beppe Grillo di trasferire le decisioni pubbliche sulla Rete abbia successo, anche i partiti maggiori comincerebbero a farne uso, e quindi verrebbero ristabilite le proporzioni che ci sono nella società civile.
Ho avuto modo di discutere con simpatizzanti ed esponenti locali del Movimento a 5 stelle piemontese, convinti No Tav, e la cosa curiosa è stata per me la loro convinzione che la maggioranza degli Italiani sarebbe contro la Tav. Non so sa dove abbiano preso questo dato, dal momento che quasi tutti i partiti sono a favore, e in genere la posizione dei partiti, soprattutto quando è nettamente maggioritaria in Parlamento, riflette l'opinione della maggioranza degli italiani. Nei rari casi in cui questo non accade, si indice un Referendum, che stranamente i No-Tav si sono guardati dall'indire, forse perché in fondo anche loro sanno benissimo che attualmente solo una piccola minoranza degli italiani (magari la maggioranza degli abitanti della Val di Susa) è contraria alla Tav. Dopodiché, la Tav sarà anche l'opera più mostruosa del mondo, i Grillini avranno ragione e la maggioranza obnubilata non ha capito niente, ma non ci si può innamorare delle proprie idee al punto da illudersi di essere in maggioranza.
Qualunque persona dotata di buon senso dovrebbe sapere se le proprie idee corrispondono o no al sentire comune.
Il rifiuto spocchioso di confrontarsi con altri esponenti politici in tv mostra l'atteggiamento poco democratico dei "grillini".
Del resto il Movimento vorrebbe abolire i partiti e la democrazia rappresentativa, per passare ad una democrazia diretta in cui le decisioni vengano prese direttamente dalla "gente" con un click su Internet. Sarebbe interessante sapere con quali sistemi il Movimento a 5 stelle ha fino a ora deciso i punti del proprio programma. Un referendum sulla rete? una discussione nei forum? Qualcosa mi dice che il criterio è stato un altro, e cioè l'adesione o meno a determinate idee. Del resto, quando ho discusso con chi fa parte del Movimento a 5 stelle, mi sono sempre sentito dare del "disinformato" ogni volta che non ero d'accordo con loro. Anche questo fa parte del loro modo di ragionare: chi non è d'accordo è disinformato, se non corrotto, in pieno conflitto di interessi, ecc.
Ecco la democrazia di Grillo: può votare solo chi è già d'accordo con lui.
- Link: la puntata di "In Onda" con gli ospiti "grillini".

martedì 25 ottobre 2011

Il divorzio


Il divorzio tra il governo e la Confindustria, sancito dalle parole della sua presidente Marcegaglia che ha chiesto un cambio di governo, può apparire un fatto incredibile, se si pensa che il Presidente del Consiglio è un imprenditore, che si è sempre detto dalla parte degli industriali, e dieci anni fa, da poco insediato al governo, pronunciò la famose frase nell'assemblea di Confindustria: "il vostro programma è il mio programma". Inoltre Berlusconi ha sempre sostenuto che la sinistra odia chi produce, e che se governasse, produrrebbe miseria e povertà.
Sarà stato un caso, ma ogni volta che al governo c'è stato il centro-sinistra, il Pil italiano è cresciuto, sia pur di poco, più di quanto sia cresciuto col centro-destra al governo. Ma non è questo il punto.
Il punto è che da quando si è capito che la crisi non è finita, e anzi è destinata a durare, gli industriali, e per la verità anche gli economisti e i sindacati, hanno cominciato a chiedere al governo riforme strutturali. Da quando poi, dal giugno scorso, è iniziata la nuova crisi nei mercati, anche l'Unione Europea ha cominciato a fare richieste pressanti ai governi dei Paesi indebitati, per l'attuazione di riforme strutturali, in grado di far ripartire la crescita.
Ma perché il governo non ci sente? Perché non fa nulla di ciò che gli viene chiesto, e addirittura arriva a dire che la crescita non si può fare per decreto e che lo sviluppo non dipende dal governo?
A mio avviso con la crisi si sta inaugurando una nuova epoca, che sancisce il divorzio tra gli industriali e i lavoratori da una parte, vale a dire la parte produttiva del Paese, e la parte privilegiata e parassitaria che ormai ha interessi diversi. Nello stesso tempo, si realizza una convergenza tra aziende e lavoratori, che più che in passato si rendono conto di avere sostanzialmente gli stessi interessi: che il sistema sia efficiente per consentire alle aziende di misurarsi sui mercati.
Il centro-destra, che fino a questo momento aveva mediato tra le due parti, da una parte le aziende e dall'altra le classi privilegiate e parassitarie (politici e amministratori, percettori di rendite, professionisti ecc.), ora non ce la fa più, perché le due classi chiedono cose diverse. Per la verità, la mediazione realizzata da Berlusconi era già precaria negli anni scorsi, e si basava su generiche promesse di riformare la burocrazia statale, di ridurre le imposte, di fare grandi opere ecc., senza però impegnarsi veramente a farle. A tutto questo si aggiungeva la promessa della Lega di rendere più efficienti le amministrazioni locali con il federalismo fiscale. Ma finché non c'era l'urgenza di fare queste cose, il centro-destra poteva tirare a campare, e i suoi elettori potevano pensare: "speriamo che nei prossimi anni si faccia qualcosa, nel frattempo, meglio avere al governo loro, i nostri amici, che la sinistra".
Ora, sta tutto cambiando. La profondità della crisi ci ha mostrato che la globalizzazione prevede Stati efficienti, burocrazie snelle, tasse basse, servizi efficienti. Il contrario dell'Italia. E chi non è efficiente, muore, come mostra il caso della Grecia.
E quindi, le contraddizioni stanno esplodendo. Gli avvocati e i rappresentanti delle altre professioni che siedono in Parlamento, non ne vogliono sapere di liberalizzazioni. I parlamentari e i politici locali non ne vogliono sapere di tagli agli stipendi e al numero dei rappresentanti. I dipendenti pubblici e privati prossimi alla pensione non ne vogliono sapere di andare in pensione più tardi. Quindi, non si fa nulla.
Insomma, stanno esplodendo le contraddizioni di un Paese in cui ciascuno cerca il proprio interesse, il proprio privilegio, senza curarsi degli altri. Senza un senso dello Stato o del bene comune.
Alla lunga ci rimetteremo tutti, ma intanto i primi che si lamentano sono quelli che operano nel mercato e si rendono conto da subito che così non si può andare avanti.

sabato 15 ottobre 2011

Viva il default?


Il movimento degli "Indignados", che si sta diffondendo in diversi Paesi dell'Occidente, è in fondo il naturale risultato della crisi che si prolunga e priva del lavoro e di un futuro stabile e sicuro milioni di giovani. All'interno di questo movimento si sta però diffondendo un'idea che può sembrare curiosa, quella di "tifare" per un default dello Stato, in modo da evitare che siano i cittadini a dover pagare una crisi che sarebbe stata scatenata dalle banche. La paura di finire come la Grecia, costretta a misure d'austerità per ripagare i debiti contratti, e l'esempio dell'Islanda, offrono una facile conclusione a molti: facciamo come l'Islanda e non come la Grecia, ripudiamo il nostro debito e riprendiamoci la nostra sovranità.
Ma ha senso questo discorso? il default sarebbe veramente la soluzione?
Ovviamente no. In primo luogo va detto che la tesi secondo la quale "la crisi è stata scatenata dalle banche" è troppo semplicistica. Intanto "le banche" che avrebbero causato la crisi sono le grandi banche americane, con le loro spericolate operazioni di finanza creativa, e non le banche di tutti i Paesi; inoltre, queste operazioni non sono servite soltanto a garantire profitti alle banche stesse, ma anche a tenere artificialmente alto il tenore di vita dei "consumatori" americani, con la complicità della politica che vedeva di buon occhio questa moltiplicazione dei pani e dei pesci. Basti pensare ai mutui subprime, che dovevano consentire a tutti di acquistare una casa, magari una villa, con la benedizione dell'allora presidente Clinton.
Va poi fatta una distinzione tra i Paesi anglosassoni (e l'Islanda con loro), affogati nei debiti privati, e i Paesi mediterranei, come l'Italia e la Grecia, in cui il debito è soprattutto pubblico e non è dovuto alle banche malefiche, ma allo Stato inefficiente e spendaccione, oltre che ad una elevata evasione fiscale. In altre parole, il debito pubblico greco o italiano non è stato creato dalle banche, ma dai politici, dagli amministratori locali, e da tutti noi, quando non paghiamo le tasse o ci facciamo raccomandare per un posto di lavoro nel settore pubblico o per favori di vario genere, quando prendiamo o diamo tangenti, o quando votiamo senza curarci dell'onestà e della moralità dei nostri politici.
E siccome il debito pubblico italiano è detenuto in buona parte dai privati italiani, un default avrebbe ricadute negative in primo luogo per i cittadini italiani. Anche perché se lo Stato fallisse, non potrebbe più pagare gli stipendi pubblici e le pensioni (diciamo, dei genitori e dei nonni degli indignati).
Poi è vero che le banche soffrono per la crisi dei debiti pubblici, ma non bisogna confondere la causa con l'effetto. Le banche possiedono titoli del debito, ma almeno nei Paesi mediterranei, il debito pubblico non l'hanno creato loro. Se adesso i governi europei sono costretti a mettere sul piatto miliardi di Euro per salvare le banche, lo fanno in realtà per salvare i bilanci pubblici dei rispettivi Paesi e dunque per salvare l'Unione Europea.
Anche l'accusa nei confronti della Germania di voler "affamare" la Grecia non ha senso, perché il fallimento della Grecia deriva in primo luogo dal fatto che il suo precedente governo ha truccato i conti, nascondendo un enorme deficit (che viaggiava verso il 15%) e presentandolo come un deficit normale (il 3% del Trattato di Maastricht). In Grecia si è pensato che entrare nell'Euro volesse dire andare ad una festa dove si mangia e si beve a spese degli altri. Invece voleva dire entrare in un gruppo dove ci sono determinate regole, dettate da Paesi nordici austeri ed efficienti, e quindi sarebbe stato necessario adeguarsi, diventando un po' tedeschi.
Ora, può anche darsi (anzi è praticamente certo) che la Grecia non sia più in grado di ripagare i propri debiti e dunque dovrà dichiarare o contrattare una qualche forma di default, ma questo non significherà la fine di tutti i problemi, perché il default significa povertà e miseria per anni (in Argentina ha significato: migliaia di persone che vivevano rovistando nell'immondizia). Nella situazione della Grecia il default può essere il male minore, ma noi italiani piuttosto che tifare per il default dovremmo sperare di non arrivare nella situazione della Grecia.
Per quanto riguarda la crisi economica che dura ormai da tre anni, va ricordato che la crisi non è "mondiale", ma è occidentale, perché i Paesi emergenti continuano a crescere a ritmi sostenuti.
Personalmente penso che alla base della crisi dell'Occidente vi siano sì problemi legati alla forma che ha assunto il capitalismo, e non per una pura e semplice "colpa delle banche", ma perché il sistema è diventato insostenibile dal momento in cui è diventato un sisterma basato sul consumismo, cioè sui consumi dei privati al di sopra delle reali possibilità dei cittadini, che si sono trasformati in consumatori. A margine di questa crisi del consumismo, vi sono Paesi come l'Italia e la Grecia in cui è stato il settore pubblico a spendere più di quanto fosse sostenibile. Insomma, fare di tutta l'erba un fascio e confondere la Grecia con gli Stati Uniti o l'Islanda non ha molto senso.
Detto ciò, siccome la democrazia non è un'aula universitaria, è giusto che le classi dirigenti nel loro complesso (quindi anche i banchieri) diano una risposta ai milioni di giovani senza certezze e senza futuro che scendono sempre più spesso in piazza a protestare.

mercoledì 28 settembre 2011

La forma è sostanza


Ora che Berlusconi è stato "scaricato" anche dalla Confindustria, e la scarsa credibilità del nostro governo ci costa miliardi di Euro sui mercati, è ormai evidente che l'Italia è ostaggio di Berlusconi e del suo bisogno di rimanere al potere per curare gli interessi personali. Ormai infatti non esistono quasi più forze sociali che sostengano ancora questo governo, tranne forse le categorie professionali, che ben conoscono la sua attitudine anti-mercatista e anti-liberale.
I pochi esponenti del Pdl dotati di un minimo di autonomia come Alemanno si sono accorti, dopo aver taciuto per anni, che i listini bloccati e i rappresentanti politici che vengono nominati dall'alto danneggiano gli stessi partiti.
Gli editorialisti del Corriere della Sera, dopo averci raccontato per anni che in Italia era presente uno scontro all'arma bianca tra due schieramenti che sostanzialmente erano equivalenti, dividendosi la stessa dose di pregi e difetti, ora si sono finalmente svegliati e si sono accorti che Berlusconi ha un conflitto di interessi enorme, e anche se il governo non è liberale e non è in grado di fare le riforme, non se ne va perché il suo leader non può permettersi di perdere il potere, dal momento che è coinvolto in mille processi e comunque preferisce gestire i suoi interessi economici personali stando al governo. Forse era meglio pensarci prima, e dire che un uomo politico non dovrebbe avere interessi privati, non dovrebbe avere pendenze giudiziarie e dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto in quanto a onestà. Era così difficile capirlo?
Gli elettori leghisti dal canto loro si sono accorti che Bossi dice sempre sì a Berlusconi e che la Lega al governo non ha mantenuto la promessa di snellire l'apparato dello Stato e di ridurre le imposte, ma siccome Bossi è il leader assoluto, nessuno può cambiare le cose, nonostante i malumori della base. Eppure per molti anni i leghisti ci avevano raccontato che la Lega era superiore ai partiti in quanto a differenza di questi era "compatta" dietro al proprio leader. Ora che questo leader è ridotto a mantenere la poltrona per sé e i suoi familiari e ad esprimersi a pernacchie e dito medio, i suoi sostenitori ne pagano le conseguenze.
Insomma, la storia ci sta dimostrando ancora una volta che la forma è sostanza, e che se in altri Paesi la politica ha delle regole che prevedono la democrazia interna ai partiti e vietano il conflitto di interessi, ci sono dei motivi ben precisi, e che considerare le regole come un optional, come si tende a fare in Italia, è una scelta che alla lunga si paga.
Già una volta l'establishment italiano decise di consegnare il potere ad un uomo solo, un uomo forte, che nelle intenzioni doveva assicurare la legge e l'ordine, e per il resto doveva essere piegato a miti consigli, mentre alla fine ci portò al distastro della guerra mondiale. L'uomo forte del momento sta invece accelerando il nostro declino, isolandoci dal resto del mondo che ride di noi e non ci considera affidabili come Paese, dal momento che siamo stati capaci di dare il potere ad un uomo che ormai fuori dai nostri confini è considerato un pagliaccio (v. ad esempio le parole dell'economista Roubini), e non siamo in grado di mandarlo a casa.
La speranza è l'ultima a morire, ma visto che in genere l'Italia non è in grado di imparare dai propri errori, temo che tra breve ci innamoreremo di un altro uomo forte, che ci prometterà di pensare a tutto lui, così potremo tornare ad occuparci dei nostri affari privati, liberandoci dal fastidio e dall'incombenza di interessarci dei problemi pubblici, cosa che ci infastidisce sempre parecchio.

mercoledì 21 settembre 2011

Terry De Nicolò e i valori della destra


Secondo gli ultimi sondaggi, il consenso nei confronti di Berlusconi è ormai al 25%, cioè un quarto degli italiani approva l'operato del nostro Presidente del Consiglio. Questo anche dopo che sono state pubblicate le intercettazioni in cui, tra le altre cose, diceva "faccio il premier a tempo perso", per dirne una. Il 25% può sembrare poco, ma è pur sempre un quarto degli italiani.
Se si votasse domani, pare che il Pdl sarebbe di poco il secondo partito, con circa il 26% dei voti. Evidentemente, una tale resistenza deve essere dovuta ad un fatto culturale, più che al semplice appoggio ad una persona. Evidentemente gli elettori condividono con Berlusconi una visione del mondo, dei valori ben radicati. E quali sono questi valori?

Ci può aiutare a capirlo l'intervista che Terry de Nicolò, una delle ragazze che frequenta(va)no le feste a Palazzo Grazioli, ha rilasciato per la trasmissione "L'ultima parola", intervista che rappresenta un perfetto compendio dei valori e delle idee della destra italiana all'epoca di Berlusconi. Tra vent'anni basterà da sola a spiegare questi anni di potere berlusconiano.

La cosa principale che emerge è che i soldi e il successo vengono prima di tutto, e per ottenerli non esistono regole. L'imprenditore Tarantini, condannato per spaccio di droga e indagato per sfruttamento della prostituzione, viene considerato un mito, e "tutti quelli che lo condannano lo fanno perché in realtà sono invidiosi".

La società, nel De Nicolò-pensiero, è divisa tra leoni e pecore. Tarantini viveva da leone, gli altri, invidiosi, vivono "cent'anni da pecora".

"E' tutto mosso dall'invidia, anche verso Berlusconi". La ragazza non concepisce neanche l'esistenza di valori diversi dai propri, quindi chi critica un certo tipo di comportamento, per lei lo fa solo per invidia.

Le persone si possono vendere, non solo è lecito, anzi è un bene. "Se tu sei una bella donna e ti vuoi vendere, tu lo devi poter fare".

"La bellezza è un valore", quindi deve essere monetizzabile, e "viene pagato come la bravura di un medico". Tanto, se un imprenditore non usa la "donna-tangente", "userà le mazzette".
L'onestà è un ostacolo per il successo: “quando sei onesto non fai un grande business: rimani in piccolo.”

Nella società vige la legge del più forte ("qui è la legge di chi è più forte, di chi è leone"), dove la ragazza non si rende conto che in base a questa logica un qualunque uomo potrebbe usarle violenza. La società è vista come una giungla, e lei ci si trova bene.

Il presidente viene chiamato "imperatore". Nei Paesi democratici uno che si atteggiasse o venisse considerato "imperatore" verrebbe visto con sospetto: evidentemente il suo potere sarebbe troppo grande per una società democratica. Per la destra italiana invece è un bene che ci sia un uomo così potente, e "tutti vogliono andare da lui". Infatti, "lui non paga un c.; è la gente che si fionda da tutte le parti. Lui apprezza, perché è un esteta.”

L'immoralismo come valore: “È la legge del mercato: più in alto vuoi andare più devi passare sui cadaveri. È così ed è giusto che sia così. Però qui non viene capito perché c’è un’idea cattolica, c'è un'idea morale.”
La ragazza è abbastanza lucida da rendersi conto che i suoi valori sono contrari a quelli cattolici. La morale, che lei rifiuta, viene accostata al cattolicesimo e alla sinistra.

Anche i diritti non hanno cittadinanza: "E' questo che mi fa inc., l'idea moralista della sinistra, che tutti devono guadagnare 2.000 Euro al mese, che tutti devono avere diritto.. no no e no!".

Siccome si fa così da sempre, va bene: “Io dico che questa definizione della donna-tangente è sbagliata, perché comunque è da che mondo è mondo.”

D'altro canto, per ottenere quello che è il valore più grande, il denaro, si deve essere disposti a tutto: "Se tu sei pecora, rimani a casa con 2.000 Euro al mese, se tu vuoi invece vuoi 20.000 euro al mese, ti devi mettere sul campo, ti devi vendere tua madre".

Va dato atto a Terry De Nicolò di essere andata fino in fondo nel mostrare i valori in cui crede una parte (purtroppo) consistente della società italiana. In questo quadro emerge come il sesso sia in fondo un dettaglio, un aspetto secondario: quello che conta sono i soldi e il potere.

Per questo non c'è l'ombra di alcuna forma di liberazione, in questa mercificazione assoluta dei rapporti umani.

Ed è questo l'errore che commette Giuliano Ferrara, quando ci fa credere che "Berlusconi ha liberato psicologicamente gli italiani". Essere schiavi dei propri vizi non è esattamente una forma di liberazione, come non lo è cedere agli idoli del proprio tempo.

D'altro canto questa visione della società come giungla dove domina la legge del più forte, è funzionale alla destra intesa come la parte della società che partendo da una posizione privilegiata, ha (o crede di avere, prima che crolli tutto) l'interesse a sopprimere l'idea di diritto e di uguaglianza.

Mentre in tutto il mondo ridono di noi, noi ci teniamo un Presidente del Consiglio indagato in diversi processi, e per reati anche gravi. Credo che la mancanza di morale sia una delle caratteristiche più tipiche dell'Italia, rispetto ad altri Paesi. Morale intesa in primo luogo come etica pubblica, come rispetto dell'altro come persona dotata di dignità e di diritti, come rispetto delle regole che sole rendono possibile la convivenza civile.
Berlusconi ha tratto vantaggio dall'esistenza di questo tipo di idee, così chiaramente esposte da Terry De Nicolò, anche se con le sue televisioni, il suo stile di vita e le sue dichiarazioni ha contribuito negli ultimi trent'anni a diffonderle sempre di più. E con i suoi difensori come Giuliano Ferrara ha contribuito a sdoganare l'immoralismo come sistema di valori.
Del resto, l'idea che "così fan tutti", che l'Italia sia un grande bordello e che quindi vada tutto bene così, è propagandata dai giornali di destra, come abbiamo visto tempo fa riguardo al Giornale.

A questo punto sarebbe fin troppo facile accostare la decadenza economica dell'Italia a questa decadenza di valori, ma non credo che questa considerazione si discosti molto dalla realtà. Non è certo con questa mentalità che si costruiscono aziende solide che possano competere nei mercati internazionali, che si costruisce una società dove ciascuno fa il proprio dovere. Quello che per qualcuno è soltanto una vita da pecora.

Link: Il video dell'intervista

lunedì 5 settembre 2011

Decrescita (in)felice?


In quest'epoca di crisi gli economisti, gli industriali, i sindacalisti e anche i politici (di opposizione) chiedono a gran voce misure per la "crescita". La crescita, si argomenta, è necessaria per assorbire la disoccupazione e il debito pubblico, per mantenere in vita lo stato sociale in un'epoca in cui la popolazione invecchia e quindi aumentano le spese per sanità e pensioni ecc.

A queste voci però si contrappone quella del movimento della cosiddetta "decrescita felice", che addirittura propone di andare nella direzione opposta: decrescita anziché crescita, contrazione del commercio internazionale e degli spazi dominati dal mercato.

Chi ha ragione?

I sostenitori della "decrescita felice" hanno dalla loro parte molti argomenti corretti.
Essi fanno notare come nel conteggio del PIL (il Prodotto Interno Lordo) vengano inserite le merci e non i beni, per cui i beni utilizzati che non sono immessi nel mercato non vengono conteggiati. Ad esempio i milioni di contadini cinesi che emigrano nelle campagne e iniziano ad acquistare il cibo di cui si nutrivano quando vivevano nei campi che coltivavano in proprio o nelle fattorie collettive, ora "mangiano ufficialmente" mentre prima ai fini del calcolo del PIL era come se non mangiassero. E' anche per questo che in molti Paesi africani si dice che ci siano persone che vivono "con meno di un dollaro al giorno": questo non significa che esse devono sostentarsi con meno di un dollaro al giorno, ma che gran parte delle risorse che utilizzano per vivere, le prendono al di fuori del mercato.
Allo stesso modo, nei Paesi industrializzati è possibile togliere una parte delle attività umane dal mercato, ad esempio spostandosi a piedi anziché con l'automobile, producendo in proprio il cibo attraverso la coltivazione dell'orto ecc. Come esempio si ricorda l'ormai famoso yogurt fatto in casa come alternativa all'acquisto dello yogurt industriale.
L'idea non è solo quella di ridurre le spese per avere la possibilità di lavorare di meno e quindi di migliorare il proprio stile di vita (da ciò l'aggettivo "felice" legato al termine "crescita"), ma anche di ridurre l'impatto ambientale delle attività economiche legate al mercato, dall'uso delle materie prime all'inquinamento prodotto dal trasporto delle merci, all'adulterazione dei cibi.
I sostenitori della decrescita felice esprimono da un lato una preoccupazione per la sostenibilità ambientale del modello di sviluppo basato sul consumismo, dall'altro lato però vogliono offrire una visione diversa della società, che non solo riduca lo spostamento delle persone e delle merci, ma che sottragga anche una quota maggiore delle attività umane al mercato.
In altre parole, la decrescita felice non nasce come risposta all'attuale crisi economica, ma nasce semmai come risposta al culto del mercato e del Prodotto Interno Lordo come suo indicatore.

Detto ciò, la teoria della decrescita felice mi lascia molte perplessità.

La produzione di beni e servizi è stata ed è una buona indicazione del livello di sviluppo raggiunto da un Paese, e il mercato è stato il sistema in cui si è verificato tale sviluppo. Banalmente, il mercato consente di produrre ciò di cui c'è bisogno: se io sono disposto a pagare per avere x, vuol dire che x per me ha un valore. Il mercato non sarà poi efficiente al 100%, ma questo non significa che vi siano altri sistemi più efficienti. In ogni caso, tra Paesi che hanno un PIL pro capite analogo, cioè in cui, nella produzione di beni e servizi secondo il classico indicatore economico, l'ordine di grandezza è simile, il livello di sviluppo sociale è più o meno lo stesso: attualmente non esistono Paesi che hanno un basso PIL e che però sono avanzati dal punto di vista culturale, tecnologico ecc. Certo, si può dire che ad esempio la Svezia è più sviluppata degli Stati Uniti, perché ha una speranza di vita più elevata o una mortalità infantile più bassa, ma la Svezia è pur sempre un Paese industrializzato, che ha fatto propria la logica del mercato, sia pure temperata dallo stato sociale. Solo i Paesi socialisti hanno più o meno raggiunto lo stesso tenore di vita di quelli occidentali senza avere un'economia di mercato, salvo crollare prima di averli raggiunti. E comunque anche i Paesi socialisti avevano basato la propria economia sullo sviluppo industriale (tra l'altro con un livello di inquinamento molto più elevato).
Allo stato attuale, dunque, la decrescita felice si configura più che altro come un'utopia, o magari come una indicazione che possono seguire i cittadini dei Paesi ricchi per ridurre in parte le loro spese ed ottimizzare le risorse. E' chiaro che per un singolo o una famiglia, può essere una mossa intelligente quella di cambiare stile di vita e di ridurre le spese, e magari di lavorare meno e avere più tempo libero, di spostarsi a piedi riducendo lo stress ecc.
Ma ho l'impressione che i sostenitori della decrescita felice vadano oltre e sognino una società senza mercato. Sembra che il loro ideale sia il Chiapas... Non stupisce dunque che in essi sia presente la classica critica nei confronti dei "bisogni indotti", e che usino toni paternalistici nei confronti dei popoli ancora non sviluppati. Se fenomeni come l'emigrazione di massa continuano a verificarsi, non sarà soltanto per la "deformazione mentale" di cui sarebbero vittima i contadini che evidentemente non si rendono conto di quanto sono felici nelle campagne. Come accadeva a coloro i quali emigravano dalle nostre campagne meridionali negli anni '50, che vivevano secondo gli standard della "decrescita felice" (autoproducevano la gran parte dei beni che utilizzavano) eppure stranamente sognavano una vita diversa... Pretendere che la gente faccia ciò che non vuole fare e non faccia ciò che vuole è un'indice di scarso senso liberale, di scarsa tolleranza.
Certamente è vero che "i soldi non sono tutto", ma questa è un'idea che è già diffusa anche nelle economie di mercato. Che l'uomo non si trasformi mai nell'homo oeconomicus, ormai lo hanno capito tutti, tranne i fondamentalisti del mercato che sostengono tesi assurde più che altro per interesse.
L'impressione è che i sostenitori della decrescita felice tendano a mitizzare lo stile di vita nelle società preindustriali, esaltando elementi come lo scambio, la condivisione, la socialità, il tempo ecc. Questi saranno anche aspetti interessanti da riscoprire (anche se personalmente, sarò un cittadino obnubilato e alienato, ma non vorrei tornare alla vita delle campagne di cento anni fa), ma un giudizio se vuole essere equilibrato deve tenere presenti anche gli elementi negativi. Ad esempio, senza il commercio internazionale si tornerebbe al rischio di carestie in seguito alle calamità naturali (siccità, alluvioni ecc.). In caso di una siccità o di una gelata devastante, sarebbe interessante vedere come si organizzerebbero gli orti a chilometro zero...

I sostenitori della "decrescita felice" sostengono che ci siano lavori più belli di altri, esaltando ad esempio l'agricoltura o il lavoro domestico, e considerando alcuni lavori come "inutili". Anche questo è a mio avviso un segno di atteggiamento intollerante. Anche l'idea che i Paesi africani non debbano uscire dall'economia di sussistenza e non debbano entrare nella logica dello sviluppo, mi pare poco sensata. E' facile, da parte di chi vive in una società sviluppata, con l'acqua corrente e l'elettricità in casa, dire "tu non ti devi sviluppare".
In realtà la tecnologia può offrire gli strumenti per evitare le ricadute negative dello sviluppo, senza costringerci a diventare tutti contadini per compiacere le visioni socio-economiche di qualche professore. Sarò arretrato, ma in attesa che mi si dimostri la fattibilità della decrescita (senza l'uso della forza, s'intende) io rimango ancorato allo "sviluppo sostenibile".

Link: La decrescita felice su Youtube (primo video di 9) spiegata da Maurizio Pallante.

domenica 21 agosto 2011

La manovra e le caste


Gli elettori di centro-destra, dopo aver accettato senza batter ciglio tutte le leggi ad personam di Berlusconi, pare siano molto arrabbiati per la manovra lacrime-e-sangue che il governo ha varato e il Parlamento si appresta ad approvare. Certamente, come si dice, pecunia non olet, e quando si toccano gli interessi personali, persino i leader carismatici perdono rapidamente l'aura di invincibilità e i loro fan adoranti si raffreddano parecchio.
Eppure non ci voleva molto per capire che un governo che non fa riforme, che non riduce in maniera intelligente la spesa pubblica (cioè non con tagli lineari, ma andando a colpire gli sprechi), che non riesce a far crescere l'economia, prima o poi sarebbe stato costretto a "mettere le mani nelle tasche degli Italiani".
E ora che c'è da andare a colpire gli interessi e la festa è finita, ormai nel centro-destra siamo alla guerra per bande. Si segnala anche la "rottura" tra Libero e il Giornale, con il primo che coerentemente, dopo aver raccontato per anni che la sinistra era il partito della casta e delle tasse mentre la destra era una coalizione liberale fatta di galantuomini votati allo snellimento dell'apparato dello Stato, ormai non può più nascondere la verità e dunque ora parla di tradimento, mentre il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, è ridotto ad un patetico "crediamoci ancora", come a dire: abbiamo fatto trenta e facciamo trentuno, in questi anni ce ne siamo bevute tante, e ora beviamoci pure questa.

Sono tempi duri per le caste. Fino a questo momento la politica del Paese più corporativo d'Europa si era organizzata come una distribuzione di favori ai diversi gruppi di interesse. Ora che c'è la crisi e si sta scoprendo che gli interessi particolari rischiano di far crollare tutto, i politici sono colti di sorpresa e non sanno più cosa dire o fare. L'afasia di Berlusconi e le farneticazioni di Bossi stanno lì a testimoniarlo. Sono finiti i tempi in cui si poteva promettere baldanzosi grandi vantaggi per i propri elettori, in cui si poteva dire che "evadere le tasse è moralmente lecito" o che il federalismo porterà più soldi al nord...

E così, dopo anni in cui i politici hanno fatto la bella vita, con gli elettori che glielo consentivano felici, sperando di ottenere qualcosa in cambio, ormai non restano che le "parole in libertà"...

Il contributo di solidarietà, contrariamente a quanto sostiene chi lo vorrebbe eliminare, non colpisce la "classe media", perché è molto difficile far rientrare in questa categoria chi guadagna più di 90.000 Euro l'anno. Certamente se questo reddito serve per sostenere una famiglia con due o tre figli, all'atto pratico non sarà equivalente al reddito di un single, ma rimane comunque difficile definire classe media chi guadagna 7.500 Euro al mese. In ogni caso, anche volendo far rientrare nella classe media chi ha questo reddito e ha dei figli, occorre tenere presente che il contributo per chi supera di poco i 90.000 Euro di reddito è limitato, mentre aumenta progressivamente con l'aumentare del reddito dichiarato. La "stangata" ci sarebbe per chi guadagna centinaia di migliaia di Euro, o persino milioni di Euro l'anno. L'errore fondamentale che commette chi vorrebbe cancellare questa norma, è di non capire che bisogna recuperare moltissime risorse, e questa non esclude le altre. Tanto è vero che oltre a questo contributo, il governo intende anche tagliare i trasferimenti ai ministeri e agli enti locali, che semmai sarebbero i provvidementi da eliminare. Si è sostenuto che però far pagare chi è onesto è iniquo, e che semmai si dovrebbe stanare gli evasori. Di nuovo, non ci si rende conto che si dovrebbero fare entrambe le cose, se non si vuole che l'Italia fallisca. Quindi l'errore non è il contributo di solidarietà in sé, è il fatto che non viene affiancato a misure incisive per la lotta all'evasione e per la riduzione dei privilegi delle vare caste d'Italia. Il fatto che Casini e il Pd vogliano eliminare il contributo di solidarietà fa pensare che non si siano resi veramente conto della situazione in cui versa il Paese.

Un errore ancora più clamoroso è però quello di Bossi sulle pensioni. Non è la prima volta che la Lega "fa quadrato" sulle pensioni: nel 1994 fece cadere il primo governo Berlusconi perché voleva riformare le pensioni. Intanto è assolutamente demagogico l'accostamente dei pensionati alla "povera gente", dal momento che non tutti i pensionati sono poveri. Inoltre, il tema non è quello di "tagliare le pensioni", ma semmai quello di elevare l'età pensionabile, come si sta facendo in altri Paesi europei, a cominciare dalla Germania. Una delle resistenze maggiori della stessa Germania nei confronti dell'istituzione ad esempio degli Eurobond, si trova nel timore dei suoi elettori che questo significherebbe "pagare le pensioni a greci e italiani". Elevare l'età pensionabile, rapportandola all'aumentata speranza di vita, non sembra coincidere con l'andare contro i "poveracci", come dice Bossi. Difendendo a spada tratta le pensioni la Lega mostra di essere un partito vecchio, l'equivalente politico della Cgil.

L'eliminazione di alcune Province rischia di essere un provvidemnto impossibile da realizzare, dal momento che come era prevedibile sono già scattate le proteste degli amministratori locali coinvolti. Più sensato sarebbe abolirle tutte, come hanno proposto l'Udc e l'Idv, mentre il Pd, colpevolmente, non è d'accordo. Il Pd ha moltissimi dirigenti che lavorano nelle province, che se scomparissero, non saprebbe dove mandarli. Il vecchio tema dei "trombati" della politica ritorna prepotente, dimostrando ancora una volta come ormai l'Italia sia ridotta ad un insieme di caste e corporazioni, con i partiti che non sono da meno, anzi hanno il ruolo di gestire ciascuno, oltre che i propri, gli interessi delle proprie caste di riferimento. Questo spiega anche il fatto che la Lega, che ormai si è rivelata essere la nuova Dc (o il nuovo Partito Comunista?) del nord, oltre a dire "le pensioni non si toccano", dice anche "le province non si toccano".

In questo quadro non stupisce che i politici cattolici e vicini al Vaticano dicano "il Vaticano non si tocca", mentre qualcuno ha cominciato giustamente a far notare come, se vale il principio di chiedere un sacrificio a tutti, e soprattutto alle "caste" privilegiate, questo debba valere anche per il Vaticano, che ad esempio non paga l'Ici sui suoi alberghi, facendo tra l'altro concorrenza sleale agli alberghi laici che non hanno santi in paradiso. Un altro aspetto sarebbe quello dell'8 per mille: se lo si vuole mantenere, si stabilisca quanto meno che venga erogato solo nella misura in cui lo scelgono i contribuenti, e non con l'attuale meccanismo furbo che assegna alla Chiesa anche la quota di chi non si esprime.

Interessante poi il dibattito sulla patrimoniale. Fino a qualche anno fa ne parlava solo Bertinotti, e solo farne cenno era appunto considerato una prova evidente di comunismo. La cosa interessante è che ora ne parlino anche esponenti del centro-destra. Alcuni non sono d'accordo, ma la parola non è più un tabù. Peccato che sulla patrimoniale il centro-destra ci aveva fatto la campagna elettorale del 2008 (la sinistra odia i ricchi e quindi vuole mettere una patrimoniale per punirli).

Curiosa anche la sorte della tracciabilità dei pagamenti, anch'essa additata come misura poliziesca e vessatoria, che solo dei comunisti e per giunta sanguisughe come Visco e Padoa Schioppa potevano avere l'idea di stabilire per legge. Tolta di fretta da Tremonti appena insediatosi nel 2008, con il plauso dei liberali all'amatriciana che fino a poco tempo fa popolavano i giornali italiani e che facevano finta di non sapere che in America chi non paga le tasse va in galera, ora la tracciabilità dei pagamenti è tornata, e tutti si dicono d'accordo che si debba colpire l'evasione, che è il vero scandalo ecc.ecc. Chissà se avranno il coraggio di abbassarla a livelli da colpire le normali transazioni dove normalmente si evade (Visco e Padoa Schioppa la volevano portare gradualmente a 100 Euro). Fino a poco tempo fa nel centro-destra se ne inventavano di tutti i colori per respingere l'idea, arrivando persino a dirsi preoccupati per la badante romena che non avrebbe potuto essere pagata dalla nonnina per cui lavorava...






domenica 24 luglio 2011

La crisi e lo spirito di una nazione


In genere quando si parla delle crisi economiche, se ne attribuiscono le cause all'incapacità o alla cupidigia dei governi, come se le popolazioni non giocassero alcun ruolo nel modo come è organizzata una società, e quindi anche della nascita delle crisi stesse.
Io invece penso il contrario, non soltanto perché, come si sa, in democrazia un Paese ha la classe dirigente che si merita, nel senso che i politici provengono dalla società e vengono da essa votati, ma anche perché nello specifico il carattere di un popolo ne determina gli errori e gli squilibri anche a livello politico.
Per questo non mi trovo d'accordo con di politici o comici che demagogicamente attribuiscono tutte le colpe ai politici, e fanno credere che il popolo sia perfetto. Non dovendomi candidare, posso dire quello che penso senza cercare di illudere o di blandire nessuno.
Alcuni esempi di recenti crisi o dissesti finanziari sono lampanti. La città di Parma, ad esempio, ha scoperto da poco di essere una delle più indebitate d'Italia, con un debito complessivo delle società partecipate del comune che si stima sui 600-700 milioni di Euro. Apparentemente, è tutta colpa del sindaco e dell'amministrazione. Ma il sindaco, che ora i critici definiscono "un ex Pr lampadato", è stato votato dai Parmigiani (con la presentazione di Berlusconi, una garanzia di affidabilità), ed è stato votato in virtù di un programma che prevedeva grandi opere, tra cui un ponte faraonico su un torrente, e persino la metropolitana. In fondo il carattere tipico della città, dove si dà molta importanza all'apparire e allo sfoggio di ricchezza, sono alla base di questo desiderio di grandezza, che ha generato (insieme naturalmente ad uno scarso senso etico, in fondo connesso alla stessa apparenza) l'attuale dissesto. Altri fallimenti famosi nel settore privato della città, come il crack della Parmalat, ad oggi il più grande della storia d'Europa, ricordano il carattere di città ducale di Parma, che vuole essere più grande di quello che è, in ricordo del suo ruolo di capitale, sia pure di un piccolo ducato.
Che dire poi del fallimento della Grecia? Qualche anno fa, in occasione delle Olimpiadi, un'amica greca che viveva in Italia mi disse: "vedrai che i Greci cercheranno di entrare negli stadi senza pagare, la mentalità è quella". E sul Venerdì di Repubblica, tra le dichiarazioni dei cittadini greci intervistati sull'attuale crisi, spiccava una risposta che suonava più o meno così: "il cittadino ha il diritto di essere stupido e ignorante, lo stato lo deve proteggere". Dove si vede il vizio, tipicamente mediterraneo, di aspettarsi dallo Stato più di quanto si sia disposti a dare. Del resto, se in Grecia l'evasione fiscale è molto più alta mentre l'età pensionabile è molto più bassa che in Germania, questo dirà qualcosa della mentalità greca, o sarà sempre soltanto colpa del governo? Del resto, è vero che il precedente governo aveva truccato i conti, ma questo è stato fatto seguendo l'andazzo di una società che ha interpretato l'ingresso nell'Euro come una festa, cioè come la possibilità di moltiplicare le spese scaricando le responsabilità su altri. E ora che le cose vanno male molti attribuiscono tutte le colpe all'Europa e alla Germania...
Anche il (per ora solo ipotetico) fallimento degli Stati Uniti dice molto sulla mentalità americana: l'enorme debito pubblico è stato accumulato a causa delle spese militari, dovute al desiderio dell'America di essere il poliziotto (o lo sceriffo) del mondo, cioè di dominarlo invece di pacificarlo, accostato alla volontà di stendere ponti d'oro e tappeti rossi per i ricchi, in una società dove il 16% crede di far parte dell'1% più ricco, e in cui il denaro è per moltissime persone il valore fondamentale, lo scopo della vita. Dunque, lo Stato è nemico (anche se non si rinuncia certo alla pensione o al pronto soccorso gratuito, per esempio), le tasse devono essere basse, per lasciare ai privati la possibilità di spendere il più possibile, i ricchi devono essere lasciati in pace e non devono contribuire perché sono "la crema della società" a cui tutti vorrebbero appartenere, però le spese militari non si toccano, anzi più sono alte, e meglio è. Per fare un paragone, in Svezia vige la mentalità opposta, di tipo egualitario: infatti là si dice che "nessuno si deve sentire molto migliore degli altri".
Tutto questo naturalmente serve per riflettere sulla situazione dell'Italia. E' chiaro che la mentalità di un popolo non riguarda tutti, ma è qualcosa di abbastanza diffuso da determinare le scelte individuali e collettive.
Se l'Italia fino a questo momento non è finita come la Grecia, è perché i difetti tipici dei popoli mediterranei, che hanno portato anche noi a scavare anche un enorme debito pubblico, sono stati compensati da una maggiore capacità produttiva, quindi una maggiore etica del lavoro, soprattuto in certe zone (il Nord). In altre parole, con tutto il rispetto, la Grecia non ha la Fiat, la Ferrari o la Ferrero. Ora però che le imprese vengono spremute per tenere in piedi l'enorme macchina statale, se non si comincia seriamente a tagliare i costi dello Stato, anche se non andremo falliti, saremo condannati a tirare a campare, a sopravvivere in un lento ma inesorabile declino.

venerdì 8 luglio 2011

Il Pd e la Casta


Brutti tempi per i partiti. Mentre gli elettori del Pdl e della Lega, anche i più ottimisti, si stanno rendendo conto che i loro rappresentanti al governo non intendono fare le riforme che avevano promesso, a cominciare dal taglio delle tasse e dalla riduzione della spesa pubblica, se non per il minimo indispensabile che consenta di onorare gli impegni presi con l'Europa, gli elettori del Partito Democratico sono di nuovo alle prese con fatti poco edificanti che coinvolgono il principale partito di centro-sinistra.
La questione morale torna alla ribalta: se il Pdl è ormai abitualmente coinvolto nelle inchieste giudiziarie, tanto che quasi non ci si fa più caso, il Pd è tornato ad essere coinvolto in un'inchiesta, quella relativa all'Enac e alle tangenti ai politici da parte di imprenditori interessati ad ottenere degli appalti. Riguardo a quest'ultima inchiesta, al di là delle eventuali responsabilità che starà alla magistratura stabilire, ci si chiede come fosse possibile che lo stesso uomo fosse amministrazione dell’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) e contemporaneamente coordinatore nazionale dell’area Trasporto aereo del Pd. Siamo di fronte ad un conflitto di interessi che mostra il carattere dei partiti italiani, che in luogo di vedere la politica come amministrazione del bene pubblico, la vedono come potere da occupare.
La recente votazione parlamentare in cui il Pd si è astenuto sulla proposta di abolizione delle Province proposta dall'Idv e appoggiata dal Terzo Polo, ha gettato una luce ancor più sinistra su un partito che alle ultime elezioni aveva ottenuto un buon risultato, forse più per demeriti altrui che per meriti propri. Del resto il modo come il Pd ha condotto la campagna elettorale, con il buon lavoro di Bersani e il sostanziale silenzio del resto della classe dirigente, mostra il tentativo, per ora riuscito ma che non può durare a lungo, da parte del Pd di mostrarsi come partito di governo, in grado di riformare il Paese, senza cambiare veramente. La classe dirigente è sempre lì, solo che ha imparato che meno si fa vedere, più risultati ottiene. In attesa di tornare al governo, si intende.
Certamente il meccanismo delle primarie rappresenta un punto di forza che consente di intercettare le preferenze degli elettori quanto alla leadership, ma forse ci vuole qualcosa di più per impedire che lo stesso Pd venga travolto dall'ondata di antipolitica, che soprattutto in un'epoca di crisi come questa sta dilagando nel Paese.
Lo stesso fastidio che alcuni dirigenti del Pd mostrano di fronte al tema dell'antipolitica mostra la loro sostanziale incapacità di comprendere che sono finiti i tempi (se mai ci sono stati) in cui gli elettori appoggiavano i partiti in virtù dell'ideologia e dei valori di cui si facevano rappresentanti, senza chiedere azioni sostanziali, ma limitandosi ad un'opera di rappresentanza.
Fintanto che la classe politica italiana sarà iperprivilegiata rispetto a quella del resto d'Europa, l'antipolitica sarà una risposta sacrosanta, e nessuno potrà tirarsene fuori sbandierando una supposta superiorità morale (che all'atto pratico è anche dubbio che ci sia).
Fino a prova contraria il Pd è né più né meno del Pdl e della Lega un partito della Casta. Solo i fatti, e non certo l'indignazione di questo o quello, potranno smentire un'affermazione del genere.

lunedì 4 luglio 2011

Violenza minoritaria


La guerriglia nel cantiere Tav della Val di Susa ha a mio avviso spostato l'attenzione in maniera eccessiva sulla violenza diretta ed esplicita, sicuramente da condannare, di cui si sono resi protagonisti alcuni manifestanti, i cosiddetti "black block". Ma a mio avviso c'è una forma di violenza più subdola, di cui si sono resi protagonisti quelli che hanno teorizzato o tentato il blocco del cantiere.
Il TAV è una grande opera europea, avallata da tutti i governi d'Europa, di destra e di sinistra, e dunque fino a prova contraria è approvata dalla maggioranza degli italiani (oltre che degli altri popoli europei). Che io sappia l'Italia è l'unico Paese in cui la costruzione della ferrovia ha generato tante proteste.
In ogni caso, anche ammettendo che si tratti di un'opera inutile e dannosa (ma ho dubbi sul fatto che noi siamo gli unici intelligenti che l'hanno capito in tutta Europa), visto che trova d'accordo la maggioranza della popolazione, e visto che siamo in democrazia, bisogna accettare la volontà della maggioranza anche se non si è d'accordo. Certo, si può tentare di convincere chi non è d'accordo, chi si ritiene non informato ecc., delle proprie ragioni, ma se non ci riesce, si deve accettare la volontà della maggioranza.
Se si vuole, questa è una prova di senso democratico, prova che non hanno passato non tanto quelli che sono andati a manifestare o quelli che hanno espesso dissenso (manifestare o esprimere dissenso è lecito), ma quelli che hanno provato a bloccare il cantiere. Tentare di bloccare un cantiere voluto da un governo democraticamente eletto, e anche dal precedente governo di diverso colore politico, è un atto di violenza. Se veramente i "No Tav" sono sicuri di avere dalla propria parte la maggioranza della popolazione (italiana, non solo quella del luogo) avrebbero potuto indire un Referendum. Se avessero una rappresentanza politica sufficiente, potrebbero (anzi avrebbero potuto) andare a far valere le proprie ragioni in sede di Unione Europea.
Insomma, una protesta deve essere adeguata alla portata di ciò contro cui si protesta, quindi non ha senso limitarsi al livello locale quando si contesta un'opera voluta dal governo e dall'Europa.
Purtroppo però in Italia c'è la tendenza ad anteporre l'interesse particolare a quello generale.
Posso capire al limite le proteste della popolazione locale, che essendo coinvolte direttamente hanno il diritto di manifestare la proprio contrarietà, al limite al livello della disobbedienza civile, che comunque non è violenza (ed essendo poi pronti a pagarne le conseguenze). Ma se si dovesse sempre partire dalle opposizioni locali, non si potrebbe fare niente, ad esempio non si sarebbe potuta costruire l'Autostrada del Sole, che ha espropriato case e terreni.
La pletora di argomenti che vengono portati dai "No Tav" è interessante, perché con quella logica non si sarebbe mai fatto niente. Ad esempio si sostiene che è inutile costruire una ferrovia di tal genere, perché i dati dimostrano che negli ultimi anni il traffico delle merci e delle persone tra Italia e Francia non è aumentato. Ma con questa logica si poteva sostenere che costruire l'Autostrada fosse inutile, visto che all'epoca gli Italiani erano poco motorizzati e al massimo disponevano di una 500 o una 600. A cosa serve l'autostrada, ad andare al mare? Si può andare in bicicletta, si può andare a piedi, si può andare in treno (sempre che, almeno quello, si potesse costruire...).
Una volta costruito il corridoio Lisbona-Kiev, con una ferrovia ad alta velocità disponibile, è sensato pensare che via sia un aumento del traffico di persone e merci. L'Europa unita è nata con l'idea che l'unione delle economie di diversi Paesi potesse fare "massa critica", un po' come è accaduto negli Stati Uniti, e generare più benessere. Certo, si può essere contro questa movimentazione delle merci, come del resto si potrebbe pur sempre rinunciare all'autostrada e muoversi a dorso di mulo...
E' chiaro che nulla e dovuto, ma alla base c'è sempre una volontà politica. In Italia però tendono spesso a prevalere i no, dettati dalla logica dell'interesse particolare e locale, oltre che da una generica paura nei confronti delle novità.
Il discorso dei costi, poi, è ridicolo. Quando non si vuole qualcosa, si parla dei costi, senza contare i benefici. Un'opera pubblica è un investimento, che ha un costo, ma si prevede che in futuro porti anche un ritorno economico. Anche il discorso degli interessi economici, è ridicolo, perché qualunque cosa si faccia, c'è sempre qualcuno che ci guadagna.
In ogni caso, il punto che volevo sottolineare non è se sia o no giusto fare il TAV, ma la violenza insita nel tentativo di bloccare con la forza il cantiere. Una violenza minoritaria di chi pensa di avere il diritto di decidere contro la volontà della maggioranza, perché più informato, più intelligente, più preparato ecc. E' la sindrome leninista della "minoranza illuminata", che si sente in diritto di parlare e agire per conto del popolo, di avere il popolo dalla propria parte anche quando non ce l'ha.

domenica 3 luglio 2011

Il finto segretario


La nomina di Alfano a segretario del Pdl ha assunto aspetti paradossali. Si doveva superare il sistema dei tre coordinatori (Verdini, Scajola, La Russa), che invece sono rimasti al loro posto. Il segretario non è stato eletto ma è stato "proposto" da Berlusconi e acclamato con percentuali bulgare (un solo contrario). Non c'erano candidati alternativi.
In una intervista alla Stampa, Scajola ha ammesso che Alfano non è neanche un vero segretario.
Domanda della giornalista (A.Rampino): "Lei sa che la modifica apportata allo statuto fa sì che Alfano non sia un vero segretario politico, dato che sarà sempre Berlusconi a decidere, e non gli organismi del Pdl? La nomina a segretario in democrazia è elettiva e contendibile"
Siamo all'Abc della democrazia, che la giornalista deve insegnare al rappresentante del partito, che però essendo un ex democristiano lo conosce, e infatti risponde: "Sono d'accordo con lei. L'altro giorno abbiamo solo modificato lo statuto in modo da poter avere un segretario politico. Un primo passo, una ripresa di iniziativa. Ma concordo con lei che lo statuto va rifatto, con nuove regole per una vera elezione del segretario".
Insomma, la nomina di Alfano è stata soltanto l'ennesima operazione di maquillage di Berlusconi, abituato così ad ingannare i suoi stessi elettori da 17 anni.
Ma siccome la realtà è diversa dalla finzione, e nella seconda i nodi vengono al pettine, ecco che lo stesso Scajola riconosce che, laddove il dibattito interno è proibito e le correnti sono vietate, si formano le correnti segrete: "Le correnti non sono un fatto positivo. Lo sono in un partito incapace di affrontare il dibattito politico interno".
Ovviamente il vero nodo che nessuno vuole affrontare è la natura monarchica del partito, caso unico nei Paesi democratici (esclusa la Lega, anch'essa monarchica e leninista, con Bossi unico capo indiscusso). Quindi si fa finta di ignorare che, come è ovvio, laddove c'è un monarca, vi saranno anche vassalli, valvassori e valvassini, vi saranno nani e buffoni di corte, cortigiani e trame segrete.
Le intercettazioni recentemente pubblicate che mostrano cosa pensano l'uno dell'altro gli esponenti del Pdl, ne sono un fulgido esempio.
E' certamente triste dover constatare che quello che è stato per anni il primo partito italiano sia un partito di tipo stalinista, nonostante il tanto sbandierato anticomunismo. Ma questo, prima ancora che di Berlusconi, dice qualcosa degli Italiani, che sembrano sempre pronti a delegare a qualcun altro la responsabilità del governo del Paese.
Evidentemente, non siamo all'altezza della democrazia, che richiede uno sforzo di attenzione di partecipazione. Se pensiamo che la democrazia sia votare una volta ogni cinque anni e poi andare al mare, dopo non ci lamentiamo delle caste e delle cricche che infestano il Paese.

Link: L'acclamazione di Alfano

martedì 28 giugno 2011

Tremonti sì o no?


Sono mesi ormai che il ministro Tremonti è oggetto di critiche più o meno velate da parte di altri esponenti della maggioranza (parlamentare, dato che nel Paese ormai sembra essere minoranza). A volte gli stessi giornali di destra lo hanno "avvertito" con titoli che insinuavano che stesse tramando con la Lega ecc. La critica principale riguarda il fatto che Tremonti avrebbe chiuso i "cordoni della borsa", impedendo di fatto una crescita economica.
Chi ha ragione?
A mio avviso, bisogna in primo luogo ricordare che, se è vero che l'Italia ha subito la crisi meno di altri Paesi, questo non è stato dovuto tanto alle iniziative di Tremonti, quanto al fatto che l'Italia non ha dovuto salvare le banche, che in altri Paesi sono state esposte allo scoppio di bolle immobiliari (come ad esempio in Gran Bretagna, Irlanda e Spagna). L'assenza di bolle ha fatto sì che in Italia non ci sia stato un crollo dell'economia, così che lo Stato non è dovuto intervenire massicciamente neanche nella protezione dei disoccupati. Detto ciò, va dato atto a Tremonti di aver capito che il sistema poteva reggere da solo, senza grandi interventi, e che anzi era auspicabile non aumentare la spesa, per impedire che il debito andasse fuori controllo. Può sembrare banale ma non lo è: richiede una conoscenza della situzione economico-sociale del proprio Paese che non tutti hanno. Quindi: Tremonti non ha fatto magie ma è stato comunque lucido nel capire che di fronte alla crisi la cosa più sensata da fare era "non fare niente", e tenere duro anche di fronte alle richieste di più spese da parte dei titolari di altri ministeri.
Un appunto che invece viene giustamente fatto a Tremonti è la scelta dei tagli lineari, iniziati per la verità prima dello scoppio della crisi, cioè nell'estate del 2008 (ma lui sostiene di aver previsto la crisi...). I tagli lineari non sono la scelta mgliore perché non fanno distinzione tra i settori in cui la spesa pubblica è produttiva e altri in cui è per lo più composta da sprechi.
Un altro settore in cui il ministro è stato carente è stato quello della crescita: forse perché legato ai settori protetti come quello delle professioni, Tremonti non ha pensato minimanente a rilanciare la competitività del Paese aumentando la concorrenza, come tra l'altro chiesto dalla stessa Authority per la concorrenza, oltre che dai sindacati e dalla Confindustria. Eppure le liberalizzazioni sarebbero misure a costo zero che dunque si potrebbero portare avanti senza aumentare il deficit.
Detto ciò, Tremonti sembra aver capito che il vecchio mondo in cui la spesa pubblica trainava l'economia è finito, quindi con tutti i suoi limiti, deve essere comunque preferito ai rappresentanti del "partito della spesa", che si annidano anche nell'attuale maggioranza di centro-destra, e che scalpitano soprattutto ora che il centro-destra ha perso le elezioni ed è in crisi di consenso. Ma va ricordato che la Grecia è a due passi.
Quindi: tra Tremonti e un ministro capace di coniugare rigore e sviluppo, meglio quest'ultimo (ma dov'è?); tra Tremonti e il partito della spesa, meglio Tremonti.

venerdì 3 giugno 2011

Grillo e la politica dei no


La coazione a ripetere che ha portato gli esponenti del Pdl e della Lega a condurre una campagna elettorale controproducente anche dopo il primo turno, continuando cioè ad insultare gli avversari, ha colpito anche Grillo, con il post nel suo blog dove chiama Pisapia "Pisapippa" e sostiene che non c'è differenza tra lui e la Moratti, che comunque ha vinto il sistema ecc.
La coazione a ripetere è un tratto che non stupisce, perché è indicativo del carattere, della "natura" di chi si comporta in un certo modo, che appunto comportandosi in quel modo esprime se stesso. Dunque, se Grillo va avanti da anni insultando i politici di destra e di sinistra, oltre che tutti quelli che non la pensano come lui, non si capisce perché dovrebbe cambiare adesso.
La novità semmai è che tra i suoi seguaci, e anche all'interno del Movimento a 5 stelle da lui fondato, stia emergendo più di qualche perplessità. Infatti non ci vuole molto per capire che le persone non sono tutte uguali, che c'è chi è onesto e chi non lo è, chi è preparato e chi no ecc.
E' evidente che slogan come "sono tutti uguali", "devono andare tutti a casa" ecc., si giustificano soltanto da un punto di vista ideologico, cioè dal punto di vista di chi, insofferente per il "sistema" nel suo complesso, lo vuole cambiare alla radice. Voler fare la rivoluzione è lecito (anche se la storia ci ha insegnato che è molto pericoloso e spesso controproducente), ma allora devi aspettari di avere la maggioranza dei consensi. Quindi, auguri a Grillo, chissà se entro il 3150 riuscirà ad avere dalla sua parte la maggioranza dei voti. Nel frattempo persone più miti e più concrete cercheranno di cambiare le cose poco per volta, riformando il sistema da dentro, senza distruggere tutto e pretendere di avere la verità in tasca. Mentre Grillo, in compagnia di gente come Emilio Fede, continuerà a storpiare i nomi e ad insultare chi non la pensa come lui (cosa che tutti dovremmo avere imparato a otto anni che non si fa).
Del resto, la difficoltà di attrarre consensi oltre una piccola percentuale, è evidenziata dal fatto che a ben guardare quello che propone Grillo non è certo risolutivo per la vita delle persone. Acqua pubblica, Internet gratis, rifiuti zero, stipendi più bassi ai politici, sono cose più o meno condivisibili, ma certo non cambieranno la vita delle persone, soprattutto di chi non arriva alla fine del mese o non trova lavoro.
La sua politica dei no può raccogliere consensi, magari tra gli insofferenti e gli arrabbiati, ma solo a un certo punto.
No alla TAV, no alla terza linea della metro a Roma, no ai grattacieli nelle città, no agli OGM, no al nucleare, no agli inceneritori. Qui non conta discutere nel merito questi singoli aspetti, che possono essere più o meno condisivibili, quanto piuttosto notare come Grillo, insieme al suo "Movimento a 5 stelle", sia contrario a tutto.
Dicendo no a tutto, Grillo mostra di essere arci-italiano, più o meno come i preti e gli amministratori locali di destra e di sinistra che si oppongono a qualunque cosa venga decisa su un determinato (il loro) territorio.
A questo punto ci si può chiedere come mai certe cose (come la Tav o gli inceneritori) si fanno in tutta Europa, e solo noi dobbiamo essere così furbi da dire sempre no. Dicendo no anche a cose che si fanno in Europa, Grillo viene smascherato, perché di fatto sta ammettendo che per lui non solo il "sistema" in Italia è da buttare, ma anche in Europa. Quindi, anche se fa finta di prendersela con i politici italiani come se fossero il peggio del peggio, di fatto ci sta dicendo che non va bene niente in nessun paese d'Europa (e del mondo?).
Io più modestamente mi accontenterei di vivere in un normale Paese europeo.
La mia impressione è che il massimalismo di Grillo si risolverà in nulla, e che il Movimento a 5 stelle, composto spesso da persone oneste e preparate, potrà sopravvivere solo se si renderà autonomo dal suo fondatore e abbandonerà il linguaggio degli insulti, oltre che la politica dei no.