Negli ultimi tempi risultano molto attivi nei social network i fautori dell'uscita dell'Italia dall'Euro, guidati da esperti (o sedicenti tali...) di economia, che sono riusciti a convincere alcuni partiti politici (dai 5 Stelle di Grillo e Casaleggio, alla Lega di Salvini, ai Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni) sull'Euro come causa principale dei problemi dell'Italia, e di conseguenza sulla necessità di uscire per riprendere in mano la cosiddetta "sovranità monetaria".
Il fatto che in Italia molti diano la colpa all'Euro, è dovuto, oltre alla tendenza purtroppo diffusa ad attribuire ad altri i nostri problemi, anche alla coincidenza tra l'adozione della moneta unica e l'inizio della stagnazione che ormai prosegue da circa vent'anni. Ma negli altri paesi non è andata così. L'Italia è un caso unico, è l'unico paese che non riesce più a crescere tra quelli avanzati, che abbiano o no l'Euro, e soprattutto non riesce a riprendersi dalla crisi del 2008, come si vede nel seguente grafico, che mostra l'andamento del Pil dei paesi del G7.
Comunque, per dimostrare l'inconsistenza degli argomenti dei no-euro, riporterò i principali, e li discuterò in una maniera che spero comprensibile ed esaustiva, per quanto necessariamente sintetica.
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I cambi flessibili sono di gran lunga preferibili ai cambi fissi, è ovvio, è banale, lo dicono tutti gli economisti, e i premi Nobel.
In realtà la scienza economica non ha ancora stabilito se siano preferibili i cambi flessibili o i cambi fissi, e per verificarlo, basta consultare un qualunque manuale di economia, o un libro che si occupi tra le altre cose dell'argomento, come "Economia internazionale" di Paul Krugman e Maurice Obstfeld.
Si vedrà come sull'argomento è in corso un dibattito che dura da decenni, come entrambi i sistemi abbiano avuto i propri sostenitori (ad esempio Mundell per i cambi fissi e Milton Friedman per i cambi flessibili), e come entrambi abbiano vantaggi e svantaggi (ad esempio, i cambi fissi favoriscono il commercio internazionale ed evitano le guerre valutarie, quelli flessibili consentono di rispondere più rapidamente ad uno shock asimetrico attraverso la svalutazione). Ricordiamo comunque che il periodo di maggior crescita economica mondiale dell'umanità, vale a dire il ventennio 1951-1970, sia stato un periodo di cambi fissi. Anche l'Italia ha avuto il suo boom economico in un regime di cambi fissi, e non ha avuto problemi, né il bisogno di svalutare. Va comunque detto per la precisione che l'euro non è un sistema di cambi fissi, ma una moneta comune.
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L'Euro è la causa principale dei problemi dell'Italia.
Innanzi tutto, non accade mai che un paese vada in crisi per colpa della sua moneta. La moneta nel bene e nel male più di tanti problemi non li può creare, dato che quello che conta per la salute dell'economia di un paese è l'economia reale, cioè quello che si produce, come e quanto si produce, insieme alle "condizioni al contorno", che dipendono dall'efficienza dello stato, dalla burocrazia alla giustizia civile, dalla pressione fiscale alle infrastrutture. Se un paese è poco produttivo e/o male organizzato, non potrà stare bene né con l'Euro, né con la lira, né col sesterzio o con la pizza di fango del Camerun. Vice versa, se un paese è efficiente e organizzato, non avrà problemi con qualunque moneta, Euro compreso. Quanto ai problemi dell'Italia, sono appunto problemi reali che si risolvono solo affrontandoli, un'amministrazione pubblica inefficiente e costosa, una scuola e università non all'altezza degli altri paesi, infrastrutture obsolete, pressione fiscale troppo alta (almeno rispetto ai servizi che lo Stato dà in cambio), giustizia lenta e che non garantisce il rispetto dei contratti ecc. Poiché però è più facile sganciarsi dall'Euro e tornare alla amata e compianta (???) lira, molti preferiscono credere che sia possibile risolvere i problemi con questo semplice espediente. Dunque, chi vuole uscire dall'Euro non vuole risolvere i problemi reali dell'Italia. E' un po' come chi sogna l'albero di cuccagna, che consenta di fare soldi senza lavorare.
I no-Euro sostengono che l'Argentina, che fece default nel 2001 dopo esseri agganciato al dollaro, dimostra la perniciosità dell'aggancio a una moneta troppo forte. In realtà l'Argentina si agganciò al dollaro per risolvere dei problemi che aveva già, come quello dell'inflazione, che dimostra come la sua economia non fosse in buona salute. E d'altro canto quello del 2001 non è certo l'unico fallimento dell'Argentina, Paese tradizionalmente mal governato, che un secolo fa era uno dei più ricchi al mondo, ma non fu in grado di conoscere il boom del dopoguerra, e che era già fallito nei primi anni '80 (vedi sotto).
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Tutti i premi Nobel sono contro l'Euro, che è una idea assurda, folle, che non può funzionare.
Chi dice questo probabilmente non sa neanche quanti siano i premi Nobel (solo dal 2000 al 2015 sono stati assegnati premi Nobel per l'economia a 32 studiosi) e non credo proprio sia andato a chiedere la propria opinione a tutti, cosa che si dovrebbe fare se veramente si volesse conoscere l'opinione dei premi Nobel su questo argomento. In realtà ciò che accade è che ci sono alcuni premi Nobel che hanno una maggiore visibilità mediatica, che magari esprimono opinioni politiche, scrivono nei blog, rilasciano interviste ecc. In ogni caso, quasi mai, anche quegli economisti che si esprimono contro questa o quella politica economica dell'area Euro (come la cosiddetta austerità), dicono che l'Euro è un errore in sé, che non può reggere, che deve finire ecc. Né conosco premi Nobel che suggeriscano all'Italia di uscire dall'Euro per risolvere i propri problemi. Né conosco studi (cioè non articoli di giornale o interviste, ma paper pubblicati nelle riviste scientifiche e magari passati in peer review) che sostengano che l'Euro non può funzionare, che impedisce ai paesi che ne fanno parte di crescere ecc.
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L'Euro è stato voluto dalla Germania, per impedire ai paesi periferici e in particolare all'Italia di svalutare.
In realtà l'Euro è stato voluto dalla Francia, con il consenso dell'Italia e con l'avallo degli Stati Uniti, dopo la riunificazione tedesca del 1990 e la conseguente paura che la Germania tornasse a costituire una minaccia per l'Europa. Sostanzialmente alla Germania fu imposto di rinunciare alla propria moneta, o meglio di mettere in comune la propria moneta con gli altri paesi europei, in cambio del benestare alla riunificazione. La Germania accettò, pur rinunciando con dolore al marco, che era un suo fiore all'occhiello, chiedendo in cambio l'adozione di regole comuni.
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Una moneta forte come l'Euro è una sciagura per l'Italia e i paesi periferici; ogni paese dovrebbe avere la propria moneta, commisurata alla propria capacità produttiva.
Avere una moneta forte, come anche averla debole, ha i suoi vantaggi e svantaggi. Ad esempio una moneta forte comporta una bassa inflazione e quindi una maggiore tenuta dei risparmi. Ecco ad esempio l'andamento dell'inflazione in Italia: l'inflazione non è mai stata così bassa come con l'Euro. Negli anni '70, quando secondo i no-euro andava tutto bene perché avevamo una moneta sovrana libera di svalutarsi e stampavamo anche moneta, l'inflazione era molto più alta.
E' vero che negli anni '70 l'inflazione era più alta dappertutto, ma in Italia era ancora più alta che negli altri paesi, come si può vedere nella seguente
tabella.
La moneta forte comporta poi un maggiore potere d'acquisto all'estero, e una più grande facilità di finanziare il proprio debito, quindi tassi di interesse più bassi, che consentono allo stato di finanziarsi a costi più bassi, e ai privati di indebitarsi pagando interessi più bassi (ad esempio contrarre un mutuo è diventato molto più facile da quando c'è l'Euro). Ecco ad esempio l'andamento dei tassi di interesse pagati dallo stato italiano; come si può vedere con l'annuncio e poi l'entrata nell'Euro, i tassi di interesse sono scesi molto, consentendo allo stato di risparmiare parecchio.
E' il cosiddetto "dividendo dell'Euro", il cui ammontare preciso non è facile da calcolare (bisogna considerare che i tassi di interesse nel corso degli anni '90 sono scesi un po' in tutto il mondo, e poi bisogna mettere nel conto anche l'inflazione, quindi calcolare l'interesse reale), ma indubbiamente c'è stato.
Lo si può vedere anche dal seguente grafico, che mostra come lo spread tra i paesi dell'area Euro si sia praticamente azzerato grazie all'Euro (il processo è iniziato prima perché i mercati tendono ad anticipare gli avvenimenti). In pratica, i paesi che avevano l'Euro hanno acquisito la credibilità tedesca, e questo era effettivamente una delle conseguenze che ci si aspettavano dall'introduzione della moneta unica.
Cosa poi ci abbiano fatto lo stato italiano o gli altri paesi mediterranei con questo risparmio, non dipende certo dall'UE o dall'Euro, ma semmai dai nostri governi.
E' anche vero che un debitore in euro non può sperare che parte del suo debito scompaia attraverso l'inflazione, quindi deve essere attento quando chiede un prestito. Lo Stato dal canto suo deve essere efficiente nelle sue spese, perché poi il debito, che è facile contrarre, sarà più difficile da ridurre. Se poi uno stato (o un privato) dilapida il vantaggio di usare una moneta forte, e spende male i propri soldi, si condanna al disastro. Una moneta forte, come tutti gli strumenti, bisogna saperla usare con intelligenza, ma di per sé non è certo un male.
Comunque, chi sostiene che ogni area economica dalle caratteristiche omogenee dovrebbe avere la propria moneta, dovrebbe chiedere una moneta per il sud Italia e una per il nord, una moneta per la Cornovaglia e una per l'area di Londra, una moneta per la Jacutia e una per l'area di Mosca, una moneta per la California e una per l'Alabama ecc. Caso strano negli altri paesi nessuno sostiene una follia del genere. E i no euro si dicono nostalgici della lira, che era una moneta comune tra due aree fortemente diverse, con il nord molto più produttivo del sud. Ogni tanto un po' di coerenza non guasterebbe.
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La crisi è nata dai debiti privati contratti dai paesi periferici dell'area euro (Piigs) nei confronti di quelli nordici. I debiti pubblici non c'entrano nulla, il vero problema è il debito estero.
Sicuramente la crisi non è stata provocata dai debiti pubblici, ma per la verità neanche dai debiti esteri, dato che è nata nel 2008 negli Stati Uniti, in seguito ad una bolla immobiliare, quella dei mutui subprime (anche se secondo alcuni questa bolla può essere stata favorita dal grosso deficit con l'estero che avevano gli Stati Uniti nei confronti di paesi come Cina e Giappone). In ogni caso, l'Euro non c'entra nulla. I primi anni 2000 furono comunque un periodo di bassi tassi di interesse, che favorirono un eccesso di indebitamento e la creazione di bolle in vari paesi, anche al di fuori dell'Euro (basti pensare a Islanda e Gran Bretagna). L'euro, eliminando il rischio di cambio, ha forse favorito la creazione di bolle in alcuni paesi, in particolare Spagna e Irlanda, finanziate da banche di paesi come Francia e Germania. L'Italia, comunque, ne è rimasta fuori, dato che negli anni prima della crisi non ha conosciuto alcun boom economico trainato da bolle (il Pil era sostanzialmente piatto, negli anni di Berlusconi e Prodi). La Grecia invece ha avuto principalmente un problema di debito pubblico (l'esplosione della spesa pubblica avvenuta truccando i conti, che in parte ha anche favorito l'indebitamento privato e con l'estero). Quindi tecnicamente
l'Italia non è un Piigs, i Pigs sono quattro e con una sola i, e comunque i Pigs non sono tutti uguali. In ogni caso, ormai tutto ciò è accaduto. Sostenere che l'Italia oggi debba uscire dall'euro perché dieci anni fa alcuni paesi hanno avuto delle bolle trainate dal credito facile, non ha molto senso. Piuttosto, è bene evitare che gli errori del passato non si ripetano. E per fare questo occorre che vi siano maggiori controlli sulle banche (l'unione bancaria che l'Europa sta lentamente avviando va in questa direzione), e naturalmente evitare che gli stati diano garanzie implicite alle banche di salvarle con soldi pubblici qualora qualcosa andasse storto (la regola del bail in a partire dal gennaio 2016 serve a questo). Insomma, non è "obbligatorio" che all'interno dell'area Euro si creino bolle o squilibri nei conti tra i paesi; chi sostiene questo cerca di dimostrare che vi sia un qualche meccanismo inesorabile per portare acqua al proprio mulino e convincere l'opinione pubblica che l'unica soluzione sia uscire dall'Euro. Ma questo è assurdo, d'altro canto nessuno negli Stati Uniti ha (giustamente) pensato che la crisi dei mutui sub-prime sia dovuta al dollaro. Come al solito, la moneta non c'entra nulla nei problemi o gli squilibri della finanza o dell'economia reale.
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Non potendo svalutare, l'Italia e i paesi mediterranei sono condannati ad accumulare deficit con l'estero e a ridurre le proprie esportazioni.
Oggi l'Italia con l'euro sta vivendo un periodo di esportazioni record, quindi non è certo questo il problema dell'Italia.
Ecco ad esempio la bilancia commerciale dell'Italia: attualmente il surplus con l'estero ha superato anche il periodo post-svalutazione del 1995.
Anche gli altri paesi periferici comunque negli ultimi anni hanno praticamente azzerato il deficit con la Germania e gli altri paesi nordici, segno che l'Euro di per sé non costringe nessuno a indebitarsi. D'altro canto, perché ci sia un debito, ci deve essere un credito, quindi se un paese non trova nessuno disposto a prestargli denaro, non potrà certo accumulare debiti con l'estero.
Inoltre, come accade all'interno dei singoli paesi, nelle aree economicamente più arretrate e che tendono a importare più di quanto esportano, la fuoriuscita di capitali comporta una diminuzione dei prezzi (in Calabria i prezzi sono più bassi che in Lombardia): quindi, in mancanza di una svalutazione, e di un finanziamento dall'estero, gli squilibri nei conti con l'estero tendono ad aggiustarsi anche in presenza di una moneta comune (a meno che non ci siano dei continui trasferimenti a fondo perduto, come accade in Italia dal nord al sud, che consentono almeno in parte al sud di spendere più di quanto produce: che sia questo il sogno dei no euro, essere mantenuti dai trasferimenti tedeschi come i Calabresi sono mantenuti dai Lombardi? In effetti spesso i no euro dicono proprio questo: ci vorrebbero i trasferimenti, ma se la Germania non ce li dà, dobbiamo uscire dall'Euro).
Prima della crisi del 2008 i paesi periferici (non però l'Italia) come Spagna e Grecia accumulavano debiti perché trovavano qualcuno, in particolare le banche tedesche e francesi, disposto a finanziarli. E questo perché le autorità europee avevano fatto credere che vi fosse una garanzia da parte della Germania sui debiti bancari e sovrani dei paesi periferici. Chiarito l'equivoco (la crisi della Grecia ha comportato un taglio parziale del debito pubblico, con conseguente perdita delle banche creditrici francesi e tedesche), dal 2010 il rischio di ogni paese ha cominciato ad essere prezzato in maniera indipendente, gli spread si sono differenziati, e nessuno osa più prestare ai paesi che non considera affidabili.
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Negli anni '80 l'Italia era una potenza mondiale che spaventava il mondo con le sue aziende iper-competitive, mentre ora con l'euro è in crisi e non ne esce più.
Negli anni '80 l'Italia aveva già più o meno gli stessi problemi strutturali di oggi (uno stato inefficiente, un basso livello di produttività ecc.), e vi ovviava con politiche che potevano funzionare solo nel breve periodo (svalutazioni, deficit pubblici elevatissimi che raddoppiarono il debito pubblico in dieci anni). Nel 1992 con un debito ormai fuori controllo l'Italia rischiò la bancarotta, e molti economisti sostengono che è stato proprio l'ingresso nell'euro deciso in quegli anni a salvare lo stato dal default, per merito della riduzione dei tassi di interesse e della maggiore credibilità ricevuta dal fatto di convertire i debiti in una nuova moneta in comune con paesi fiscalmente responsabili, che ha consentito ai mercati di fidarsi ancora del debito italiano. Da allora però lo stato non è stato riformato, la spesa pubblica ha continuato a crescere, inseguita dalla pressione fiscale che è diventata insostenibile per le imprese e dunque l'Italia ha smesso di crescere.
E' evidente che né il sistema attuale (spesa pubblica alta e inefficiente ma conti pubblici tenuti sotto controllo con tasse elevatissime) né quello degli anni '80 (elargizioni pubbliche che drogavano la crescita aumentando il debito) siano modelli da seguire, ma provare nostalgia per quel periodo in cui si sono poste le condizioni per la stagnazione attuale, con la creazione di uno dei debiti pubblici più alti al mondo, è decisamente assurdo.
In ogni caso dagli anni '80 sono passati 30 anni e nel frattempo sono accadute molte cose, a cominciare dalla globalizzazione che ha visto entrare nel commercio internazionale paesi enormi come la Cina, e dalla rivoluzione informatica. Pensare che il mondo ci aspetti e che si possa tornare ai bei tempi andati, competendo nei mercati globali con le nostre piccole aziende a conduzione familiare, è quanto meno irrealistico.
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L'Italia dovrebbe uscire dall'Euro per poter svalutare, in modo da recuperare competitività e aumentare le esportazioni.
La svalutazione consente di recuperare competitività sul breve periodo, ma non sul lungo, tanto è vero che i paesi che hanno adottato questa strategia, tra cui la stessa Italia negli anni '70 e '80, dopo un po' dovevano svalutare di nuovo, senza per questo riuscire a crescere più dei paesi che non svalutavano.
Come si può vedere nel seguente grafico, l'Italia tendeva ad essere in deficit con l'estero anche quando svalutava. Le svalutazioni consentivano di recuperare competitività per un periodo limitato, dopodiché, non essendo stati fatti interventi strutturali, la situazione tornava ad essere quella di prima.
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Da http://it.tradingeconomics.com/ |
In quel periodo la lira italiana si svalutò moltissimo sul marco tedesco, come si può vedere nell'immagine seguente.
Eppure l'Italia non riusciva a crescere più della Germania, che recuperava la competitività perduta con la moneta forte attraverso investimenti e ristrutturazioni industriali che la rendevano più produttiva, e anche i salari erano a vantaggio della stessa Germania (cosa del resto ovvia perché i salari in ultima analisi sono legati alla produttività). In genere i paesi esportatori hanno una moneta forte che si rivaluta (altro esempio, il Giappone nel periodo d'oro, vale a dire fino agli anni '80), e nonostante questo continuano ad esportare parecchio, mentre i paesi che tendono a svalutare (altro esempio oltre all'Italia, la Grecia negli anni '80), tendono ad essere importatori netti.
Ecco ad esempio il conto delle partite correnti della Turchia, paese che secondo i no-euro sarebbe fortunato in quanto dotato di moneta sovrana e in grado di svalutare. Ebbene, la Turchia è in forte deficit con l'estero: ennesima prova che la moneta sovrana e la svalutazione non bastano a ridurre gli squilibri, se non si agisce sulle loro cause reali.
- La svalutazione dà ottimi risultati, consentendo di eliminare gli squilibri, come dimostra l'Italia che nel 1992 svalutò ottenendo un boom delle esportazioni.
La svalutazione non è una passeggiata, tanto è vero che svalutano solo i paesi in crisi, lo fanno a malincuore (anche la Banca d'Italia quando svalutava la lira lo faceva solo dopo aver cercato a tutti i costi di sostenere il cambio), e comunque non sempre questo comporta risultati positivi. Ad esempio negli ultimi tempi hanno svalutato paesi come la Russia, il Brasile, l'Argentina e il Giappone, e non hanno ottenuto risultati, neanche nelle esportazioni. In Russia dopo la svalutazione l'inflazione è salita al 16%.
In Argentina (dove si stampa anche moneta per finanziare una parte della spesa pubblica, altra cosa che vorrebbero fare i no euro) l'inflazione è ancora più alta (tanto che la presidenta Kirchner ha avuto l'idea di
requisire l'istituto di statistica e di truccare i dati). Comunque la svalutazione dell'Italia nel 1992 comportò un aumento della disoccupazione, una diminuzione del salari reali (il salario nominale fu bloccato per la concertazione, e l'inflazione che rimase intorno al 5% l'anno comunque rosicchiò gli stipendi per qualche anno), e un notevole aumento delle esportazioni dopo due-tre anni.
Che la svalutazione sia spesso collegata ad un aumento della disoccupazione, lo si può vedere nel seguente grafico.
Insomma, pro e contro come sempre, senza miracoli. Di fatto la svalutazione è un sussidio occulto alle imprese che esportano, ottenuto attraverso una riduzione del salario reale. Se è questo che si vuole ottenere, lo si può fare senza uscire dall'euro e svalutare (ad esempio, aumentando l'Iva, che colpisce i consumi in maniera indiscriminata più o meno come l'inflazione, e nel contempo riducendo il costo del lavoro per le imprese, consentendo loro di essere più competitive sui mercati esteri).
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Uscire dall'euro non provocherebbe alcun problema che non sia facilmente risolvibile, non vi sarebbe né corsa agli sportelli, né fuga di capitali.
Come si è visto nel caso della Grecia, che nel 2015 con il primo governo Tsipras si stava avviando verso l'uscita dall'euro, queste sono proprio le cose che succedono, quando si pensa che un paese possa uscire dall'euro, o anche dall'aggancio con una moneta più forte (come accadde in Argentina nel 2001, quando a un certo punto le banche furono chiuse e la gente rimase fuori a protestare, mentre i loro risparmi venivano falciati dalla svalutazione).
D'altro canto, basta ragionare un secondo: se voi sapeste che i risparmi che avete in banca stanno per essere convertiti in lire e che la nuova lira si svaluterà parecchio, diciamo del 30% sull'euro o su altre monete come il dollaro, che fareste? Li lascereste tranquillamente in banca a svalutarsi, o correreste per recuperarli e nasconderli sotto il materasso o portarli all'estero prima che sia troppo tardi?
Ora, come si è visto in Grecia, ma anche in Argentina nel 2001, la corsa agli sportelli è il primo passo di una catena che alla fine porta al default dello stato e al crollo del Pil, attraverso il fallimento delle banche che rimangono senza liquidità e non possono fare più prestiti.
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Non potendo svalutare la moneta, l'euro costringe i paesi deboli a svalutare il salario, infatti è la moneta voluta dai capitalisti per impoverire i lavoratori; bisogna dunque tornare alla sovranità monetaria per difendere i salari.
Poiché in ultima analisi il salario è legato alla produttività, non stupisce che i paesi dall'economia debole, cioè poco produttivi, abbiano anche salari più bassi. Chi produce poco, non può che pagare poco i propri lavoratori (questo vale anche per una singola azienda: immaginate di avere due dipendenti e un utile di 24.000 euro l'anno: anche se voi non mangiate e usate tutto l'utile per gli stipendi, non potrete dare più di 1.000 euro al mese a dipendente).
Non a caso l'Italia aveva i salari più bassi d'Europa anche quando aveva la lira. E ancora oggi i paesi, anche con moneta sovrana, che producono ancora meno (ad esempio la Bulgaria o la Tunisia), hanno salari ancora più bassi.
In ogni caso, la svalutazione è esattamente equivalente ad una riduzione diretta dei salari. Solo che nel primo caso, quello della svalutazione, la riduzione avviene in maniera subdola, attraverso l'aumento dei prezzi dei beni importati (e anche di quelli prodotti all'interno, come conseguenza dell'aumento del prezzo del petrolio, che influisce sul trasporto delle merci prodotte in casa).
La svalutazione competitiva è una specie di droga che consente alle aziende poco competitive di rimanere a galla grazie alla diminuzione dei prezzi, quindi a lungo andare rende il Paese che attua questa strategia poco produttivo, e quindi dotato di salari bassi.
Rimane il fatto che quando un paese va in crisi, la diminuzione dei salari è un fenomeno fisiologico, basti pensare ai nuovi contratti delle case automobilistiche americane,
che dopo il 2008 dimezzarono addirittura il salario orario rispetto ai vecchi contratti.
Al di là dei periodi di crisi, l'unico modo che un paese ha di aumentare i salari consiste nell'aumentare la produttività, come dimostrano i paesi più produttivi, come Giappone e Germania, che guarda caso hanno sempre avuto monete forti, che non si svalutavano, e salari molto alti. Chi invece vuole svalutare, vuole recuperare competitività attraverso la riduzione dei salari reali. Chi ci tiene al livello dei salari, dovrebbe preoccuparsi per la produttività, anziché chiedere di ridurre il potere d'acquisto dei salari attraverso la svalutazione.
Il vero problema dell'Italia è quello della produttività, che sostanzialmente è piatta da molti anni.
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I paesi periferici e dall'economia più debole sono condannati a subire un differenziale di inflazione rispetto ai paesi forti come la Germania, e questo differenziale di inflazione li rende gradualmente meno competitivi, e l'unico modo per riequilibrare i conti è svalutare.
In realtà nessun paese è "costretto" ad avere un'inflazione più alta di un altro. Se poi un paese si ritrova ad avere un'inflazione più alta della Germania senza avere una crescita della produttività adeguata (altrimenti non sarebbe più debole e non perderebbe competitività), vuol dire che sta sbagliando qualcosa, tipicamente aumentando i salari più della produttività. Ma questo è un errore, a meno che non lo facciano anche gli altri paesi, che prima o poi si paga, e si dovrà riequilibrare o con una svalutazione, o con una deflazione interna, cioè in qualche modo si dovranno riabbassare quei salari che erano aumentati troppo (come abbiamo detto, anche la svalutazione corrisponde ad una diminuzione dei salari reali). Ecco ad esempio cosa è accaduto ai salari reali negli anni precedenti la crisi. Come si vede, la Spagna e la Grecia li hanno aumentato in maniera spropositata rispetto agli altri paesi dell'area Euro, e non a caso sono i paesi andati maggiormente in crisi.
Se un paese tiene a posto i conti pubblici e non aumenta i salari più della produttività, può stare benissimo nell'Euro anche se nel complesso è meno produttivo della Germania o dei paesi nordici. Certo, si dovrà accontentare di salari e stipendi più bassi, ma questo come abbiamo visto accadrebbe anche al di fuori dell'Euro e accadeva anche prima dell'Euro, quando i paesi nordici erano più ricchi di quelli mediterranei.
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La Germania ha guadagnato competitività rispetto agli altri paesi europei abbassando i salari, facendo dunque concorrenza sleale.
Nel 2003 la Germania era considerata il malato d'Europa, e aveva una disoccupazione più alta di quella dei paesi mediterranei. Con le riforme Harz si cercò di rendere il sistema più competitivo, e tra le altre cose si bloccarono i salari (che comunque erano molto più alti di quelli italiani e più alti della media europea) per qualche anno, senza che comunque scendessero sotto il livello di quelli dei paesi mediterranei. Basta confrontare gli stipendi tedeschi con quelli di altri paesi europei, per rendersi conto di come i primi non siano affatto più bassi, anzi.
In seguito, con la ripresa dell'economia, i salari tedeschi hanno ripreso a crescere, e dopo la crisi la Germania è uno dei pochi paesi che ha visto i salari aumentare. Dunque, non c'è stato nessun dumping salariale, ma soltanto un aggiustamento rispetto al livello, evidentemente troppo elevato, che avevano in precedenza (se la disoccupazione è alta vuol che i salari sono troppo alti per la situazione generale di un dato periodo).
D'altro canto basta guardare i dati su un periodo più lungo rispetto agli anni successivi al 2003, per capire come in Germania in costo del lavoro tenda ad aumentare.
In ogni caso è curioso che questo rilievo venga fatto dai no-euro alla Germania, e non ad esempio alla Cina, che ha basato il suo sviluppo proprio sui salari, quelli sì, veramente molto più bassi di quelli di tutti i paesi europei, ed ha massacrato migliaia di aziende italiane con la concorrenza basata sul prezzo. Invece la Germania ha sempre basato le sue esportazioni sulla qualità più che sul prezzo.
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Il divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro del 1981 è la causa principale dell'esplosione del debito pubblico italiano, dato che fece aumentare i tassi di interesse.
Dato che i tassi di interesse incorporano il rischio-paese, il rischio che svaluti, e l'inflazione, se un Paese ha governi deboli che cambiano quasi ogni anno, inflazione più alta degli altri paesi, deficit (anche primario) più alto, e spesso svaluta, per forza avrà tassi di interesse più alti. Chi pensa che questo non conti, potrà comprare titoli di un paese con queste caratteristiche, e voglio vedere se accetterà di acquistarli a tassi di interesse bassi come quelli tedeschi. Poi magari l'anno dopo il paese svaluta e il nostro investitore si ritrova con i risparmi bruciati.
Comunque può essere interessante capire come si arrivò al cosiddetto divorzio.
Anche se per i no-euro furono meravigliosi, gli anni '70 furono anni molto duri dal punto di vista economico, non solo a causa delle crisi petrolifere, ma anche perché le banche centrali di molti paesi, essendo dipendenti dalla politica, tendevano ad aumentare l'offerta monetaria in concomitanza con le elezioni, generando inflazione. Per rispondere a questo fenomeno, diversi paesi attuarono delle misure, a cominciare dal presidente della Federal Reserve americana Paul Volcker, che operò una forte stretta monetaria a partire dal 1979. La stretta fu così forte da provocare un'impennata dei tassi di interesse e persino una breve recessione.
Solo che avendo gli Stati Uniti un debito e un deficit basso, l'effetto sul debito pubblico americano fu tutto sommato contenuto.
In quello stesso periodo l'Italia decise appunto di separare la Banca Centrale dal Ministero del Tesoro, in modo che la prima non fosse costretta a stampare moneta per finanziare una parte della spesa pubblica. Altri paesi hanno applicato il "divorzio" più tardi, la Svezia negli anni '90, senza osservare un aumento del debito pubblico (anzi la Svezia da quando ha attuato il divorzio ha dimezzato il debito pubblico, che è sceso da circa l'80% a circa il 40% in vent'anni). Quindi il divorzio non è in sé causa di un aumento dei tassi, anche se lo fu in Italia, perché i governi continuarono con la politica di deficit elevati e svalutazione. Quindi le politiche dissennate dei governi italiani, che prima si scaricavano sull'inflazione, cioè venivano pagate direttamente dai cittadini, a partire dal 1981 vennero scaricate sul debito pubblico, cioè sulle generazioni future. Se l'Italia avesse mantenuto basso il deficit pubblico, come fece ad esempio la Francia, il debito pubblico non sarebbe esploso (nel 1990 la Francia, che durante gli anni '80 si era auto-imposta la regola del 3% di deficit massimo, aveva un debito pubblico pari a circa il 40% del Pil, mentre l'Italia superava il 100%). Oggi l'indipendenza della Banca centrale dalla politica è un principio fondamentale di politica economica, applicato da tutti i paesi avanzati, e non a caso l'inflazione non costituisce più un problema, senza che per questo i debiti pubblici debbano per forza esplodere.
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L'Euro espone i paesi periferici come l'Italia a subire gli investimenti dall'estero, che rappresentano una sorta di colonizzazione. In pratica, stiamo svendendo i nostri gioielli agli stranieri.
Innanzi tutto gli investimenti dall'estero non sono di per sé un male, nella misura in cui consentono di creare (o mantenere) lavoro, innovazione, concorrenza. In ogni caso, l'Italia non riceve investimenti dall'estero superiori agli altri paesi. Anzi la Gran Bretagna, fuori dall'Euro, ne riceve molti di più.
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L'Euro costringe a fare austerità. Se fosse possibile fare più deficit, la crisi passerebbe facilmente e l'economia riprenderebbe a crescere.
In realtà non vi è affatto un legame sicuro tra crescita e deficit. Ad esempio il Giappone negli ultimi anni sta facendo deficit molto elevati, che stanno aumentando ulteriormente il già enorme debito pubblico, eppure la crescita rimane asfittica, tra le più basse dei paesi avanzati.
Eppure il Giappone dovrebbe essere un paradiso per i no-euro: ha moneta sovrana, ha svalutato, ha un deficit elevato, e la sua banca centrale sta acquistando titoli di stato ad un ritmo elevato. Ecco un paragone tra la crescita del Giappone e quella dell'Irlanda, che secondo i no-euro è un povero paese periferico dell'area Euro, privo di moneta sovrana e dunque destinato a diventare sempre più povero, triste e sofferente.
Strano, l'Irlanda cresce molto più del Giappone!
D'altro canto, dopo la crisi diversi paesi europei hanno fatto deficit importanti, senza per questo conoscere una crescita sostenuta. Ad esempio la Spagna, pur stando nell'Euro, ha fatto più o meno gli stessi deficit della Gran Bretagna. E la Francia, che ha dichiarato di non intendere rispettare il parametro del 3% per i prossimi anni, continua ad avere una crescita molto bassa. Quindi l'austerità dell'Euro è un po' un mito, in realtà i diversi paesi hanno fatto più o meno i deficit di cui avevano bisogno o di cui credevano di aver bisogno.
L'idea che il deficit faccia crescere l'economia è un errore storico, dovuto al fatto che nel dopoguerra, in presenza di una crescita robusta, quasi tutti i paesi avanzati facevano deficit anche relativamente elevati. Ma la causa della crescita non era certo il deficit! I paesi avanzati crescevano già parecchio per motivi strutturali (crescita della popolazione, progresso tecnologico) e quindi si potevano permettere anche di fare deficit senza che questo creasse particolari problemi all'economia.
I paesi del nord Europa, che hanno sperimentato una grave crisi negli anni '90, dovuta tra le altre cose ad un eccessivo aumento della spesa pubblica e quindi della pressione fiscale, hanno capito per primi quanto fosse importante ridurre il debito e cercare di crescere attraverso guadagni di produttività. Ad esempio la Svezia, fuori dall'Euro e quindi libera di fare i deficit che vuole, si è autoimposta una austerità ancora più drastica, che l'ha portata a dimezzare il debito pubblico in vent'anni. Come si può vedere dal seguente grafico, la Svezia è stata spesso in surplus negli anni 2000 (altro che deficit al 3%!), eppure non sono arrivate le cavallette, anzi è uno dei paesi più in salute d'Europa.
Paesi come la Svezia e la Germania dimostrano che si può crescere benissimo anche senza (o con poco) deficit.
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Uno stato a moneta sovrana non può fallire e non può finire sotto attacco speculativo, invece l'Euro è una moneta straniera che mette i paesi che ne fanno parte a rischio di fallimento.
In realtà la storia è piena di paesi a moneta sovrana che hanno fatto default, come si può vedere nella seguente tabella.
Alcuni di questi paesi avevano agganciato la propria moneta a monete straniere, altri no.
Notare come l'Argentina, che secondo i no-euro sarebbe fallita nel 2001 per colpa dell'aggancio al dollaro, era già fallita sei volte in precedenza, dal 1800.
D'altro canto, nel 1964 e nel
1976 la lira italiana, moneta sovrana e flessibile, finì sotto attacco. Mentre nel 1974 sempre la felice Italia sovrana e dal cambio flessibile,
aveva chiesto un prestito al fondo monetario (si veda anche
qui un resoconto delle volte in cui l'Italia ha dovuto chiedere prestiti all'estero).
Il concetto di "moneta sovrana" viene usato in maniera fuorviante: sembra che a controllare la moneta sia il popolo sovrano, mentre uno stato non a moneta sovrana come i paesi dell'Euro sia sottoposto ad una sorta di dittatura. In realtà, i meccanismi di base che regolano l'emissione e il controllo della moneta nei paesi dell'area Euro e nei paesi a moneta sovrana sono sostanzialmente gli stessi: c'è una banca centrale indipendente, che regola l'emissione di moneta, vigila sulle banche private ecc., e questo accade in Europa (con la Bce), in Gran Bretagna (con la Banca d'Inghilterra), negli Stati Uniti (con la Fed) ecc.
CONCLUSIONE
Con questa analisi non intendo sostenere che l'Euro sia una buona idea, o che sia stato costruito bene, o che non abbia difetti, ma semplicemente che le tesi dei no-euro sono inconsistenti, che con ogni evidenza l'Euro non è la causa dei problemi dell'Italia, e che dunque uscire non risolverebbe i problemi, ma ne creerebbe di ulteriori.